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Educazione marziana – Parte 1

“There are only a few times in life when you get a second chance – Lincoln’s Challenge is one of them.”

Una fredda mattina di marzo, il sole bello alto, mucchi di neve ancora ghiacciata per strada, la terra grigia smineralizzata dal gelo del Midwest, io e i miei compagni di viaggio andiamo a visitare la Lincoln’s Challenge Academy, un istituto per adolescenti che hanno perso la retta via e volontariamente hanno chiesto aiuto per ritrovarla. Non avendo soldi ma solo una grandissima determinazione a migliorare se stessi e la propria vita futura, questi disgraziati teenager si sono arruolati in un finto esercito. La Lincoln’s Challenge Academy di Rantoul, IL, è infatti una scuola di stampo militare: gratuita (!), non connessa ufficialmente all’esercito ma modellata su di esso, isolata da potenziali fonti di pericolo sociale, brutta.

Due plotoni di ragazzi-soldato ci attendono nel parking lot; quando scendiamo dalla macchina accade questo: da un lato, quattro di loro innalzano le bandiere (quella degli Stati Uniti, quella dell’Illinois, quella della scuola e l’ultima non lo so, me la sono persa, dopo il primo minuto ho solo e sempre tenuto lo sguardo basso); dall’altro, il loro generale saluta con una stretta di mano la persona che ci accompagna e contemporaneamente una ventina di ragazzi si mettono sull’attenti e fissano attraverso di noi un punto sperso nell’orizzonte. Lungo il vialetto che conduce all’entrata dell’istituto, vialetto che noi percorriamo in fila per due, ci sono coppie rade di ragazzi-soldato che al nostro passare si mettono anche loro progressivamente sull’attenti ai due lati opposti e accordano la loro espressione secondo quanto esige il codice militare. Quando mi capita di incrociare lo sguardo di qualcuno di loro la mia mente vomita in automatico immagini di occhi: i primi sono i cavalli imbizzarriti di Fra Cristoforo, poi l’azzurro eroina di Kurt Cobain, poi solo stelle e strisce picconate in fondo all’iride. I loro occhi sono tutti quegli occhi e proiettano storie brevi ma così dure che io non riesco a fare altro che tornare a guardare il pavimento.

I ragazzi indossano delle divise militari blu. Hanno tutti tra i 16 e i 18 anni, la maggioranza è di colore e, come spesso ci viene ripetuto, sono arrivati alla Lincoln’s Challenge volontariamente per seguire questo programma:


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22 settimane: “the days are long, mental and physical activities are rigorous, and personal time is limited.”


Nella foto non si capisce niente, ma questa è l’unica immagine che posso permettermi di inserire. Mentre il generale e il responsabile della disciplina proiettano le loro slide per noi, alcuni ragazzi – minorenni – ci raccontano le loro storie.

G. viene da Chicago, ha 17 anni e un fratello che fa parte di una gang. Nel suo quartiere ci sono due gang che si fanno la guerra e se non sei dentro a una di queste la tua vita fa schifo. Non sei nessuno. Se però sei dentro a una di queste allora finisci a sparare, o a rischiare di essere ucciso. Ti droghi, sicuro. E sei perduto. Per sempre. G. conosce questa strada e non la vuole prendere, ma non crede di riuscire a opporsi a questo destino con la sua sola volontà. Lui vuole scegliere la strada del gentleman, vuole essere come noi e quindi si è iscritto alla scuola.

Sulla parola gentleman vibra tutta la stanza.

S. è anche lei di Chicago, ha 16 anni e una figlia. Ha rischiato di morire due volte, una quando è stata accoltellata per strada, l’altra quando un proiettile le ha attraversato il bacino da parte a parte. Sempre per strada. Vivere nelle zone povere della città vuol dire questo. Quando ha scoperto di essere incinta ha capito che non poteva essere una buona madre se continuava a vivere nel quartiere, gettata nella violenza delle gang come giù per un burrone. Oggi non sa se è una buona madre, non sa neanche dove andrà dopo, ma ce la sta mettendo tutta e, mentre dice queste parole, S. è così normale che tutti noi vediamo in lei la personificazione massima della tragedia.

Ci commuoviamo.

“1. It’s always a voluntary experience so, the results will always belong to the cadet. 2. It’s the first step in the restoration process…walking away from the old life. 3. It’s a military experience…it’s not therapy, jail or punishment.”

Il programma di “riabilitazione” serve a trasmettere a questi ragazzi il senso della disciplina e nessuno meglio degli americani è più esperto nel saper trattare la materia: in 22 settimane ti insegnano il rispetto per te stesso, lo spirito di squadra, il senso di responsabilità e quello di cittadinanza, l’importanza del lavoro. Ti sensibilizzano sulle droghe, il sesso e l’alimentazione. Ti fanno correre in plotoni e ti fanno fare le corvè, ti fanno stare sull’attenti per ogni estraneo che varca la soglia e ti fanno gridare a squarciagola YES, SIR! o I’M SORRY, SIR! nel corridoio della scuola, davanti a tutti – anche a noi – perché hai detto una parola di troppo durante la lezione. Obbedisci solo ai tuoi superiori, di maggioranza ex ufficiali dell’esercito, e niente ti è permesso senza il loro benestare. Fai anche 40 ore si servizio sociale, ma tutto sommato, questa è la parte migliore: sei nell’unica scuola americana dove per imparare qualcosa non devi sborsare migliaia di dollari, sei circondato da gente come te ed è sempre meglio che stare a rischiare la vita per strada.

Puoi anche avere un mentore, che di certo sostituirà la figura genitoriale che non hai avuto e ti aiuterà a mediare i tuoi casini con quelli della società in cui dovresti vivere.

Terminato il programma, il 20% dei ragazzi si arruola nell’esercito. Un altro 20% torna alla high school, un altro 20% va a lavorare. Nessuno va al college. Alcuni abbandonano il programma a metà. Di altri non si sa più nulla.


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Per quanto riguarda i visitatori, invece, dopo due ore di mazzate nello stomaco (a cui avremmo anche voluto controbattere, per dirla tutta, gridare che com’è cavolo è possibile che non avete un sistema sociale normale e avete bisogno di raddrizzare questi ragazzi come fate con le bestie? Se urli in faccia a un ragazzino che l’altro ieri urlava in faccia al suo rivale come diavolo pensi di trasmettergli un’idea di cambiamento? Ma nelle controversie sono sempre più forti loro, non c’è niente da fare, ti si zittiscono le domande in gola..) è tempo di gloria: si aprono per noi le porte dell’hangar della Chanute Air Force Base lì locata dal 1917 e sono di nuovo gli anni della guerra, soprattutto la seconda mondiale e la fredda. Pezzi originali, patriottismo autentico, cantilene e leggende sui russi, e come sempre quell’ambiguità in cui sguazzano placidi, innocenti e arresi: invasione? no, esportazione della democrazia; violenza? no, tecnologia; guerra? no, missione di pace.


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Il figlio di una delle famiglie che mi ospita è in Afghanistan, non sanno dove di preciso. Non possono saperlo per legge. Una piccola bandiera della US Army appesa alla finestra – lato strada – segnala a chiunque passi che quella famiglia ha uno dei suoi figli impegnato in un’operazione di guerra nelle terre lontane. Accanto alla bandiera piccola dell’esercito sventola quella grande, sempre dell’esercito. Accanto a quella grande sventola quella degli Stati Uniti. Tre bandiere per una casa.

Il prossimo maggio la coppia si trasferisce in un altro stato del paese. Non credono che il loro piccolo bassotto, cieco e sordo, un po’ vecchietto ma ancora affamato e saltellante, possa farcela a sopportare il viaggio. Stanno valutando di sopprimerlo giusto in questi giorni. Credono sia meglio portare con loro solo le sue ceneri. Lo fanno per lui, come hanno fatto per il precedente, che ora sta sulla mensola sopra la cucina, in un’urna ricoperta di velluto rosso.

You ain’t nothin but a hound dog..


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