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Il folk è una ballata di morte e fumetto

“Tra i pini il sole non splende mai e trascorro la notte intera a tremare di brividi mentre soffia un vento gelido.” In the Pines, la canzone popolare americana di fine Ottocento che in una delle sue versioni più note fa così, racconta questo: di una persona che chiede a una donna oscura, nera, misteriosa dove abbia dormito quella notte perché nell’aria c’è un forte sospetto di omicidio.

Mi piace raccontarvi questa storia mentre sono qui, a girare intorno a Seattle dove proprio di questa murder ballad nei primi anni Novanta ne nacque una versione decisamente più moderna e, se possibile – come disse sconcertato Neil Young dopo averla ascoltata -, più licantropa e spettrale. Quella dei Nirvana.


In the Pines diventò allora, per tutti quelli che l’avevano ascoltata su MTV e poi a ripetizione negli anni a venire, Where Did You Sleep Last Night, una ballata grunge dove i pini avevano smesso di fare ombra sin dal titolo ma avevano di certo mantenuto e altresì moltiplicato il senso di struggimento e sinistra malinconia che porta con sé la forma verbale to pine. Non è questo in fin dei conti il valore, il potere della della tradizione popolare? Perdurare nel tempo senza perdere efficacia narrativa e tuttavia acquisire  connotazioni sempre diverse, capaci di unire alla lingua eterna della storia un altro linguaggio, un altro vocabolario, tipico – questo – delle diverse epoche storiche.


Oggi, ad esempio, la ballata suona di nuovo e suona in forma di fumetto. In the Pines, infatti, è il titolo di un graphic novel dell’artista olandese Erik Kriek (recentemente pubblicato in Italia da eris) che per il suo progetto narrativo ha scelto un approccio biforme: raccontare cinque ballate di morte tipiche della tradizione anglosassone attraverso un disegno dinamico e oscuro, rimanendo sì fedele alla narrazione originale ma allo stesso tempo arricchendo ogni storia di prospettive nuove, nuove relazioni tra i personaggi, esiti diversi, finali inediti. E soprattutto scegliendo per ognuna di esse un colore predominante diverso: Pretty Polly and the Ship’s Carpenter è verde acido, The Long Black Veil è lilla, Taneytown è ocra molto chiaro, Caleb Meyer è celeste, Where the Wild Roses Grow è rosa antico. Come risuona senz’altro al vostro orecchio, i titoli delle cinque ballate a fumetti sono anche i titoli che, una volta finita la lettura, diventano chiavi di ricerca di Youtube per prolungare la storia all’indietro, là dove è nata. In musica.

Murder Ballads? Ma non è l’album di Nick Cave? Sì, ed è un gioiello del genere, ma il termine significa molto di più. Le Murder Ballads rappresentavano (e rappresentano tuttora) una parte importante del Great American Songbook – l’antologia non ufficiale della musica popolare – e un sottogenere della ballata tradizionale. I testi delle ballate trattano sempre di un omicidio, ma la forma in cui la storia viene raccontata è molto variabile. A volte presenta il punto di vista del killer, a volte quello della vittima, più spesso però quello di una terza persona che osserva: il narratore o cantante. Il corso del dramma è multiforme, ma spesso l’assassino non sfugge al suo destino: l’uomo, o la donna, finisce sulla forca o dietro alle sbarre. Il cantante chiude con un appello morale: non farlo, guarda come va a finire!

La postfazione del giornalista Jan Donkers chiude il libro raccontando la storia di ognuna delle cinque ballate e il loro significato nella tradizione. È una postfazione importante, una sovrannarazione che rende omogenee le precedenti e le lega al passato, al futuro e alla potenza archetipica di un disegno che, tavola dopo tavola, annulla in modo inquietante qualsiasi legame con il tempo e con la contingenza. Inclusi tempo e contingenza del lettore, la cui esperienza dentro In the Pines non solo è misteriosa e sinistra ma anche totalmente immersiva, quasi sovrannaturale. Come se in mezzo ai pini ombrosi non ci fossero solo personaggi di fantasia ma anche inconsci riflessi di noi stessi.

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Qui un’anteprima. Buona lettura!

 

Erik Kriek, In the Pines, eris 2016, 136 pagine a colori. Traduzione dall’inglese di Fay R. Ledvinka. Traduzione della postfazione dall’olandese a cura di Alexander Tegelaars.

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