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It’s all about the beach: California dreamin’


santa monica panoramica

La spiaggia di Santa Monica. Cliccateci su, questa immagine va vista a tutto schermo.


All’una di pomeriggio, sulla spiaggia di Santa Monica, mentre è maggio e la sabbia fa l’imperatrice, non ancora la schiava, un ragazzo mi avvicina e mi chiede come va. Bene, dico mentre mi tolgo gli auricolari, benissimo. E che fai qui? Sono in viaggio, sono italiana. Ma dai, nice! Io invece sono in pausa pranzo. Lavori qui vicino? Lavoro giusto dietro la spiaggia. Awesome, dico, significando questa parola come un’americana vera ma con un pizzico di invidia in più. Buona gita allora, mi augura sicuro di quel che dice, have fun in Santa Monica! I will, gli prometto e gli sorrido.

Io mi rimetto gli auricolari e seguo i miei passi che vanno sempre avanti sulla stradina di cemento in mezzo alla sabbia, lui dà un colpo di pattini da dietro in avanti e mi distanzia. Mentre scivola via beve qualcosa – immagino – di potente da un bicchierone, da dietro ha una maglietta bianca morbida che svolazza, i fianchi anche sono un po’ morbidi, la testa è pelata, gli shorts sono neri e le rotelle gialle anni Ottanta. Sono quattro per ogni pattino. I pattini sono bianchi. Lo seguo con gli occhi finché il sole lo tiene, poi lo lascio andare sulle sue ruote a confondersi nell’ombra delle palme insieme a tutti gli altri.

Se mi fermo un momento e li guardo, tutti gli altri sono:

ciclisti, poliziotti ciclisti, surfisti, lifeguards, insegnanti di yoga, skaters, venditori di medicine alla marijuana vestiti di verde, hippie sopravvissuti e con la barba lunga, addestratori di aquiloni, artisti delle piccole cose, runners, pattinatori vintage o con Rollerblade ultima moda, ancora surfisti, il capo dei bagnini con i pantaloncini rossi e la giaccavento rossa sopra il petto nudo, ragazze che trascinano una canoa, pallavolisti, ballerini, equilibristi, ginnasti, bambini e genitori macrobiotici, camerieri, rapper latinoamericani, hip-hoppari neri, tatuatori, ragazzi e ragazze che volano su una struttura tutta archi, anelli e acciaio.


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La popolazione della spiaggia di Santa Monica emana salute. Se penso agli eletti, io drogata di pop culture che non sono altro, penso a loro, quanto di più vicino allo stereotipo californiano si possa immaginare eppure tutti così naturali, senza lacca, senza pettine alcuno, senza artificio da copertina ma, al contrario, terribilmente selvaggi, la sola cosa che conta nella vita è stare bene, in pace, sereni, nutrendosi di mare e sole e spiaggia, lontano dalla fretta, l’oceano è la guida, senti il suo ritmo, accomodati tra le sue spume e goditi la vita.


La spiaggia della California del Sud, quello spazio naturale che ti accoglie stanco dopo aver visto gli orrori fatiscenti di Los Angeles e quelli pacchianissimi di Hollywood, è larga tre volte un’autostrada italiana e ha un unico potere assoluto: la calamità. Con una presenza del genere nel mezzo del cammino della vita, certo in spiaggia non vai per il picnic o per fare il bagno: in spiaggia vai perché è lì che si vive e le regole di questo dannato posto stanno alla sua discrezione. In acqua con la muta, fa ancora troppo freddo. Le onde solo quelle più basse di tre metri, è ancora troppo presto. Gli asciugamani stesi a otto metri dal bagnasciuga, questo non è il Mediterraneo.


Se Santa Monica è il set riverberante di rimandi adolescenziali di Baywatch (stesse torrette azzurre, stesse macchine gialle che rimbalzano sulle dune della spiaggia, stesso salvagente rosso chiaro di plastica a forma di supposta), Venice Beach è il regno sì del kitsch turistico, ma anche quello della filosofia hippie che non tramonta mai e anzi si unisce a quella new age di chi approfitta di un’intera palestra costruita sulla sabbia per stare in forma e poi va a mangiare al chiosco del sushi sul retro dove per 8 dollari ti danno una montagnola di salmone fresco e insalata, e infine va a prendere i figli appena undicenni spersi in uno skatepark enorme quanto mezza spiaggia e siccome non li trova allora decide di farsi un giro in tavola anche lui.

A proposito di tavola, tuttavia, qui si aprono i libri di storia, qui si dispiegano spontanee le note dei Beach Boys, qui si scompigliano i capelli di chi si ricorda ancora con trasporto di Point Break, qui si narrano le leggende più scatenate: nulla da queste parti è tanto importante, sacro, epico, majestic, impressionante e puro come il surf. E se si parla di surf, cari amici che ora state sognando con me, allora si parla di Malibu, una breve striscia di costa selvatica che a un certo punto si insena e forma un angolo: da un lato sabbia pura, scogliera a picco e case dei divi; dall’altro sabbia grezza, tavole in acqua, in cresta, sulla sabbia, torrette dei bagnini impegnati sul serio, puntini neri che sono uomini donne e bimbi e sono laggiù a gambe incrociate sulla tavola dondolante in mezzo all’oceano ad aspettare che il cielo si faccia più vicino e l’acqua una montagna.


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Lo spettacolo del surf in California è, per chi vuole farsi trasportare, una grande emozione: non ci sono confini d’età, di sesso, di estrazione sociale; non ci sono priorità al di fuori del divertimento; sì ci sono tensioni tra chi è del territorio e chi no; sì c’è l’ambizione di farsi vedere e quella di fare meglio degli altri ma sta a te, allora, notare che, quando il cielo è plumbeo e sono le sette del mattino, fa freddo e c’è foschia e l’oceano grugnisce incostante, i surfisti autentici ti mostrano sempre le spalle, sono incuranti del tuo stare a guardarli perché tu sei a terra, sei dietro, e a loro interessa solo il davanti, l’orizzonte del mare, l’orizzonte con i gabbiani che annunciano i cambiamenti di corrente, l’orizzonte severo, e sono disposti a trascorrere ore in quella posizione di gelo e attesa finché finalmente gelo e attesa non diventano un’onda, poi due, poi tre, poi un treno e qualcuno a fare da traino sulla prima cresta. A quel punto, nell’ora in cui entrambi si svegliano e devono venire a patti per creare una giornata, chiunque sa leggere nella scia della tavola sull’onda che ci sono solo loro due, il surfista e la natura, e le loro due forze che si attraversano, si uniscono, a volte si tradiscono. E basta.

La maggior parte di loro lascia scarpe e vestiti sulla Highway 101, la mitica Pacific Coast Highway, e va scalzo e vestito solo della muta verso l’acqua, disfacendosi del cemento bollente con familiare padronanza. Qualcuno, più fortunato, ha una casa direttamente sulla spiaggia (come Dylan, ricordate?) e allora la sua padronanza è ancora maggiore. Qualcuno, infine, sta ancora imparando a fare suo l’equilibrio delle onde e nessuno lo disturba, è la natura per la natura. Tutti, e questa è la fine per davvero, sembrano vivere come Boone e la sua cricca in quel libro avvincente che è La pattuglia dell’alba di Don Winslow, che ho recensito qui e che consiglio a tutti quelli che ora si sentono in balia del più classico dei sogni americani, la California.

Un giorno scrissi del treno americano delle meraviglie, quelle tratte di ferrovia che attraversano paesaggi mozzafiato e che permettono ai viaggiatori di vedere cose meravigliose riservate solo a loro. Tra queste c’è, appunto, la California del surf, mostrata dai finestrini di un treno che si chiama, non a caso, Pacific Surfliner e va da Los Angeles a San Diego e ritorno. Questo è il primo video fatto da me che vi mostro: sono tre minuti di spiaggia, sole e surf. Non so come sia la risoluzione, ma cosa importa? Quel che dovete considerare è:

  1. la gentilezza degli speaker, che oltre ad annunciare la prossima stazione consigliano anche di stare appiccati ai finestrini per avvistare i leoni marini;

  2. le onde eleganti;

  3. i surfisti (che sono solo puntini neri all’inizio e poi, verso la fine, prendono l’onda);

  4. le torrette dei bagnini;

  5. le reti da beach volley;

  6. la linea di giallo e azzurro e verde che non si piega mai ed è sempre così vicina.

Keep on dreamin’.


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