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#lovingNYC | Bellezza


Mentre c'è questa ballerina che, in costume leggins passi di danza e muscoli scolpiti, si fa fare delle foto da un'amica in uno degli angoli più belli di Central Park e io la fotografo a mia volta dalla scalinata su cui sono seduta, un po più su, sempre nello stesso bellissimo angolo di Central Park, passa un ragazzo che, incidentalmente, mi ostacola la vista. Se ne accorge, mi sorride, io gli sorrido, lui affretta il passo e quando mi scorre davanti mi dice "You're more beautiful than her". Il tempo di un mio "Thank you" tra l'imbarazzato e l'entusiasta e lui se ne va.

Ora, è la seconda volta che in un parco di questa città qualcuno mi dice che sono carina ed è la terza volta in questo diario di sole sette puntate che non vi risparmio il racconto del mio approccio con qualcuno. Approccio – bisogna dirlo, anche se quella volta c'era di mezzo il tramonto della vita e lui era bruttino – sempre lusinghiero.

Mi era capitata una cosa simile a Santa Monica, una sera, anni fa: fumavo una sigaretta ferma a un angolo della strada dei negozi, ero triste, stanca e, secondo il mio modo di vedere, anche piuttosto sciatta. Passa questa donna stupenda, bionda, con un cappello che solo una modella può portare, una criniera di capelli sciolti e lunghi, tacchi, un trench uscito da chissà quale cabina armadio di una casa sulle colline di Hollywood, mi guarda, si ferma e – non lo dimenticherò mai quello sguardo, quel tono – mi dice: "I like you, you are so nice". E anche lei se ne va.

Meeee? Niiiice? Credo mi siano venuti i lacrimoni quella volta, un complimento ricevuto da una donna così femminile vale cento volte quello di un uomo. Soprattutto in un momento così fragile come era quello su quell'angolo. Prima che questa pagina diventi un melodrammatico rigurgito da psicoterapia, voglio subito mettere in chiaro una cosa: anche io vedo una faccia carina dall'altro lato dello specchio, come ogni donna ho le mie insicurezze e i miei pensieri negativi, il mio rapporto con me stessa non è più complicato di così (su questo tema, almeno).

Ma qui, infatti, stiamo parlando di un'altra cosa. Qui stiamo parlando di come ti fa sentire una città. Di come i suoi abitanti sono disposti a trattarti. Di come cambia la percezione di te a seconda di chi o cosa hai intorno.

A proposito di quello lì, appunto, che diceva che qui la gente è orribile.

Ci sono certi posti in America – e Manhattan è il primo, il più potente, il più costante – che mi fanno percepire la vita come sarebbe se io fossi bella come loro. Non riesco a spiegarlo diversamente, credo sia un gioco di specchi tra l'individuo, la comunità e la città che li contiene e li fa interagire. Se tutti e tre si mettono in comunicazione, se tutti e tre sono ben disposti l'uno verso l'altro, se tutti e tre si compenetrano allora si scatena qualcosa di davvero – è appena passato un topo a tutta velocità nel parco e probabilmente alle spalle ne ho un altro, li sento muoversi nell'erba, a proposito di bellezza – si scatena un potere peculiare, una forza salvifica. Un miracolo nella 34esima strada.

Io a Manhattan mi sento bellissima e credo che la mia bellezza dipenda da queste cose: non mi sento speciale (lo dicevo già a proposito della metro) bensì libera (di osare, di essere come mi va, di fare o non fare, dire o non dire); non mi sento inquieta bensì energica; non mi sento diversa bensì unica; mi sento veloce ma non di fretta; mi sento centrale perché sono al centro del mondo e non perché voglio essere il centro del mondo; mi sento interessante in virtù di una storia che è interessante come quella di tutti gli altri. Manhattan ha un'energia travolgente e sconsiderata, per nulla dolce ma a modo suo protettiva. La gente quella storia la vuole sentire, se nota qualcosa di te che vale la pena di essere messo in risalto lo mette in risalto, anche in mezzo alla strada, anche se tu non vuoi, è informale e ridanciana, un po' rude – è vero – ma forte, incalzante, così varia in tutto quello che la forma che chili di troppo, denti storti, gambe a x non hanno più valore di una – pompieri che passano a tutto spiano, hanno pure le bandiere che sventolano di lato – di una nota un po' stonata durante una Traviata mozzafiato.

C'è un'altra cosa, poi. Che è quella più sensibile e che è quella che, lo so per certo, qui mi fa essere più bella che in ogni altro posto del mondo: a New York non mi sento mai sola. O meglio: quando a New York mi sento sola basta che mi sintonizzi sulle sue frequenze più severe – "basta solo che esci di casa, stronzetta" – e il mio scenario interiore cambia completamente. È di questa sostanza il mio sogno newyorchese, quello che fanno in tantissimi e che si realizza quando, al risveglio, vieni a vivere qui: la sostanza del non essere mai sola.

Oggi ho camminato ore e ore per mezza Manhattan, sono ancora qui a dire il vero. Ho iniziato come sempre con un errore: dovevo andare a sinistra, sono andata a destra. Ho pensato ma sì, ok, andiamo a fare un salto alla New York Public Library. Sono andata su, al terzo piano, dove c'è quella sala incredibile che tutti avete in mente, con i tavoli lunghi di legno, le finestrone, i marmi, le lampadine dorate, gli scaffali anche loro di legno, i libri antichi. Sono andata lì e invece di fermarmi dietro il cartello rivolto ai turisti che dice fermi qui, mi sono tolta lo zaino, ho oltrepassato il cartello, sono andata a sedermi, ho preso uno dei libri che mi porto sempre dietro e mi sono messa a leggere con i newyorchesi.

Per un'ora della mia giornata quella è stata la versione della mia vita più simile al sogno: nella mia città, a fare quello che piace, sentendomi bella.

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