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#lovingNYC | Stagioni

Per una volta nella vita vorrei che fosse inverno. L’oceano sarebbe dello stesso colore, il cielo anche, il molo no. Il molo sarebbe vuoto, e le giostre pure. Sono a Coney Island, il più grande Luna Park d’America che da decenni guarda l’Atlantico e invecchia sempre uguale dando le spalle alla città, e oggi sia il molo che le giostre, sia la spiaggia che l’ampio miglio di passerella che la costeggia specchiano l’estate con colori decisi, ostinati, decrepiti.

L’oceano è grigio, il cielo zucchero. Come d’inverno, solo che con le persone e le grida. Di neon, tanti. Di lampadine, spente. Di luci, il sole.

Sono arrivata a Coney Island portata da un mito, un mito per lo più fotografico, penso mentre scrivo. Ho in mente le immagini di un tempo vuoto, di un tempo fermo, in cui c’è la ruota panoramica e nessuno sopra, l’ottovolante domato, il trenino scardinato, un telo impermeabile sopra la consolle, il calcio in culo (l’avete mai chiamato diversamente?) immobile e nessuno sopra, la giostrina con i cavalli tutti fermi, tutti in posa. Nessuno sopra.

L’oceano è grigio, il cielo zucchero.

Quelle immagini sono l’inverno e oggi invece è l’ultimo giorno di luglio. Di luci, il sole. Di grida, infinite. Dopo solo cinque giorni a New York mi ero dimenticata di come può essere l’America al suo peggio: becera, bambina, grottesca, spassosissima. Dammi solo cinque minuti, vecchia amica, perché io mi possa di nuovo abituare. Credevo di averti lasciato in una periferia della Louisiana e invece eccoti qui.

Alcune giostre sono sì vuote e immobili, come fosse l’inverno che per un attimo ho desiderato, ma la maggior parte funziona perfettamente e, là dove non c’è qualche navicella che si torce su se stessa a velocità supersonica spargendo onde sonore che neanche le balene negli abissi, c’è la spiaggia, dove le onde quelle vere lambiscono i contorni di famiglie sovrappopolate, coppie impudiche, villeggianti eruttanti, bambini che tanto ormai le sberle sono reato, ragazze che tanto ormai il pezzo di sotto del costume è più grande davanti che dietro, drogati del fitness che non vanno mai in crisi d’astinenza, ragazzoni con tanto di quel gel nel capelli che le onde ci sbattono sopra e tornano indietro al doppio della potenza, tatuaggi che neanche vi posso dire, palloni, palline, sculture gonfiabili e cappellini di tutti gli sport e di tutte le squadre esistenti al mondo inclusa la Lituania.

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Sul molo pescano i pescatori, da una giostra abbandonata 12 altoparlanti sparano R&B a tutto volume. Io, tra gli uni e l’altra, scrivo. Il vento pieno di salsedine mi sbatte in faccia, l’odore del mare è uguale dappertutto. La mia frangetta scolorita da casalinga di San Antonio se ne va in giro contenta per la testa e ammicca ai capelli biondi ossigenati della ragazza di colore qui di fianco, alla banana di treccine nere dell’altra ragazza che mi passa dietro smangiucchiandosi un’unghia fucsia e mi spiace che le due non siano amiche perché tutte insieme avremmo fatto un bel terzetto su questa panchina davanti all’Atlantico.

Ed Sheeran dagli altoparlanti. Conto fino a tre e qualcuno da qualche parte si mette a ballare. Pausa. Si sente per un attimo il rumore delle onde, quello delle giostre, le grida. Un gabbiano, persino. Despacito. E qui scusate faccio una pausa io perché voglio guardare lo spettacolo. Anzi, sapete cosa? Vi saluto, vado a mettere i piedi dentro la sabbia gialla e guardo le giostre andare, torcersi, girare mentre il ritmo del tormentone della stagione, lo stesso tormentone ovunque, qua come in Italia come ai Caraibi, mi rassicura su una cosa: pasito a pasito, piano piano, dolcemente e soprattutto inaspettatamente la ruota panoramica continua a girare. Con un ritmo che non è il tuo, magari, ma di qualcun altro.

A volte ritrovarsi a guardare un paesaggio famigliare è piacevole, altre volte il bello è proprio non sapere cosa arriverà dopo, dalla cima in avanti.

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