Ci sono diversi sconvolgimenti categoriali che la città di New York è capace di mettere in atto: il primo riguarda la definizione di casa e il secondo quella, consequenziale, di cittadino. Se sei a New York e ti senti a casa allora vuol dire che quella è davvero la tua casa. Se sei a New York e ti senti a casa allora sei un newyorker e quella casa hai il diritto, la giusta conformazione spirituale e carnale, per trattarla come tua. Anche se fosse per un mese, un giorno, un minuto soltanto.
New York è come Dio: ingiusta e irosa, non puoi che percepirla come amabile, eterna e onnipotente. E funziona così, che se ci credi è possibile.
Nell’esperienza mortale, tuttavia, spesso New York viene trasmessa, prima che sotto forma divina, sotto forma di racconto: di parole, di immagini, di esposizione di souvenir pacchiani ma adorabili, di valigie rigate e cartoline non spedite, di biglietti della metro, di frenesie da shopping, di tovagliolini dei locali, di biglietti da visita degli sconosciuti con cui hai parlato nei bar, di ticket dei teatri, dei cinema, dei musei, dei concerti e dio solo sa cos’altro.
Una foto della collezione newyorchese di Augusto Montaruli.
A New York non si arriva mai da soli, e soprattutto mai vergini. Ci sono state infinite serate di film, innumerevoli romanzi, neanche si riesce a ricordare quante storie per radio, tv, giornali e cornici; c’è l’immaginario narrativo che ci racconta di lei prima ancora di andarci, e poi le storie degli amici che ci sono già stati. L’amico che per primo ci porta a New York, quello che meglio di altri lo può fare perché è italiano e lo sentiamo vicino, è Paolo Cognetti che, nel suo New York è una finestra senza tende, in particolare nel capitolo dedicato al Greenwich Village, ci mette in contatto con la parte della letteratura americana più amata e conosciuta in Italia, la Beat Generation. Questo è il primo incontro della serata: le strade di Ginsberg, Kerouac e Corso, alla scoperta di locali, immagini e ispirazioni che possano – se possibile – moltiplicare in potenza il richiamo divino e leggendario della città e delle incredibili storie di cui è ed è stata prepotente scenario.
Lontani nel tempo e inglobati in uno spazio parlante, siamo ancora troppo turisti così.
A spezzare l’incanto del primo approccio è la voce di Jonathan Lethem. Che arriva non da Manhattan, ma da Brooklyn, dalla Brooklyn degli anni Settanta, quella scassata e adolescenziale venuta prima della gentrification, quella che ha gli occhi della droga, della musica, dei giochi di strada che dividono bianchi e neri, dei fumetti da leggere di nascosto che uniscono bianchi e neri. La fortezza della solitudine guarda a Manhattan quando i suoi protagonisti sono in volo vestiti da supereroi, ma concentra il suo magma narrativo attorno a Dean Street e a quella parte di New York che sta al di là del fiume/oceano e dal lato sbagliato del ponte, ovvero le colline inesistenti di un quartiere chiamato Boerum Hill in onore dei boeri, “quelli che avevano combattuto gli inglesi”, dove le case sono malmesse e gli uomini soli.
A collegare i mondi opposti di New York c’è l’acqua, due ponti magnifici e cumuli di spazzatura. Cumuli che formano una spiaggia, una spiaggia dove Drew, uno dei personaggi di Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, si sta per spogliare nudo e buttarsi. Un ritratto brevissimo e un po’ ansioso cattura l’attenzione e la sposta dal luogo all’uomo: New York è uno spazio solo se qualcuno lo abita e lo caratterizza. E spesso questo qualcuno ha tanti maglioni addosso, che per toglierli ci vuole un po’, ma poi sotto nasconde terrore, sogni di una vita intera e attimi da cogliere.
C’è un altro uomo che, dal lato giusto del ponte, come l’ennesima figurina in un susseguirsi di uomini che scendono dall’alto di una posizione sicura al basso di uno stato d’incertezza, definisce anche lui New York. Di nuovo a Manhattan e di
nuovo solo: è Peter, il protagonista di uno dei più bei romanzi della letteratura americana contemporanea, Al limite della notte di Michael Cunningham. Come titolo vuole, è notte e Peter ha bisogno di uscire a prendere un po’ d’aria. Scende di casa e si mette a camminare a zig zag sulla Broadway, attraversandola più volte per allontanarsi “dalla sonnolenza filtrata, henryjamesiana, del West Village”. Peter non sa più chi è e le definizioni della sua persona, quelle che gli vengono dalla figlia, dalla moglie e dal cognato, dai colleghi e dalla società, fanno da contrappunto ai ritratti delle strade e di quella New York in cui non sai mai chi puoi incontrare e, soprattutto, chi puoi diventare.
E infine è proprio questo, nell’ultima lettura della serata, che ci racconta il più grande narratore americano di oggi, Jonathan Franzen, in una lettera d’amore comparsa sulla rivista Internazionale del 20 agosto 2009 intitolata C’eravamo tanto amati. L’originale è contenuto in un’antologia americana che raccoglie i ritratti dei 50 stati americani in altrettanti racconti di altrettanti scrittori statunitensi: State by state: a panoramic portrait of America. Il messaggio della lettera d’amore di Franzen a New York è molto semplice: non importa quando e se l’hai programmato, non importa dove stai andando e se mai ritornerai da dove sei venuto; quello che importa è che c’è un momento, un istante, un’interruzione dello scorrere del tempo come fino ad allora l’hai conosciuto in cui tutto cambia e ti si palesa nel bel mezzo del cuore una “visione definitiva”. Quella di New York quando ti fa innamorare, quella di New York quando ti fa smettere di respirare, ti fa smettere di pensare e diventa, inesorabilmente e per sempre, tua.
Fine del racconto.
Inizio del viaggio.
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