Alla perentorietà di certe affermazioni corrisponde sempre almeno una smentita.
Non era molti mesi fa che pubblicavo su questi schermi un ironico racconto sui miei gusti di lettura prevalentemente male-oriented. Un racconto che ha avuto un certo successo e che ha fatto sì che, dal giorno della sua pubblicazione ad oggi, io venissi puntualmente avvisata, sollecitata, richiamata da amici e colleghi su qualsiasi azione – più o meno priva di dignità – fosse compiuta da James Franco, il soggetto di quell’ironico racconto, per discendere progressivamente dall’Olimpo glorioso dei seducenti al fango incolore dei poveretti.
Ironia – ancora – ha voluto che, proprio in questi giorni, anzi proprio oggi, al definitivo svuotamento di dignità del maschio Alfa (purtroppo visibile a questo link) sia corrisposto un potentissimo nascimento femminile. Sia corrisposta la consapevolezza di stare a sedere comoda nella platea dell’immaginazione dove ogni giorno assisto ai miei mondi che non sono quelli reali e vedere comparire da una scena che prima non c’era e adesso c’è ed è imbiancata di luce e altresì impalpabile, vuota, effimera, di vedere comparire da questa scena che io credo essere la mia vita futura una donna, una signora ben vestita e di età imprecisata, con l’aria forte e amabile, seduta anche lei comoda sul bordo del palcoscenico a incrociare, non tanto distrattamente quanto io vorrei credere, il mio sguardo.
Faccio fatica a descrivervi questo, ma ho promesso alla signora che sarei stata onesta, e non voglio deluderla.
La signora è lei, quella qui sotto, solo che sul mio palco io l’ho vista più vecchia. Ha questo nome, Joan, ma anche un altro, Maria, e anche un altro, Marta. E anche un altro, il tuo. Veniva dal deserto ma secondo me anche dal futuro per cambiare la mia vita.
Adesso vi spiego.
Lo sapete perché è stato così difficile, fino ad oggi, leggere autrici donne? Lo sapete perché lo sarebbe stato ancora di più essere ironica – come spesso sono in questo spazio virtuale – raccontando di letture femminili (perché in realtà ne ho fatte ben più di una)?
Per lo stesso motivo per cui mi faccio sedurre da quelle maschili: perché nella vita del libro, come in quella reale, tra me e chi racconta si instaura un rapporto. E spesso è un rapporto di forza.
Nei rapporti di forza uomo-donna a me piace giocare, e quindi valutare la vicinanza e il suo contrario, l’avvicendarsi, il ritrovarsi, l’allontanarsi, il cercarsi. La distanza e una delle sue figlie, l’ironia. In quelli donna-donna no, in quelli donna-donna io cado vittima – se l’altra donna mi attrae a sé – di un inestinguibile principio umano di compartecipazione e perdo la distanza, perdo l’autonomia, vengo annullata. Perdo e basta. Se gli uomini sono facili da tenere lontani e posso permettere loro soltanto la mia seduzione, le donne sono più forti. Più preponderanti. Più penetranti. Le donne sono io.
E io non sono facile da leggermi su un libro.
Ma certo.
So che non è così che si scrivono le recensioni, non è con un io che si parla di un tu o, come in questo caso, di un esso, il libro. Eppure non desidero descrivere la storia, né scomporla. Peggio, qui non desidero raccontarvi chi sono la scrittrice Joan Didion e la protagonista di questo suo romanzo, Maria. Ci pensano molto bene Cristiano de Majo in un articolo scritto per “Rivista Studio” e intitolato 10 cose che non potete sapere di Joan Didion ed Edoardo Nesi in una recensione per “Repubblica“. E non a caso sono due uomini. Ci pensano purtroppo anche recensioni inutili e molto povere che cospargono la rete e a cui non desidero unirmi.
Qui desidero, al contrario, dirvi solo questo.
A pagina 68, una pagina che negli occhi dura solo una manciata di secondi, io mi sono scoperta gridare per alcuni di quei secondi, poi chiudere il libro con gesto animale e infine piangere.
A pagina 7, l’incipit, ho dovuto rileggere più volte le stesse prime frasi, perché non tenevo il filo del discorso, c’erano solo serpi, serpenti a sonagli, domande e l’eco di una risposta che al proprio inconscio non piace mai.
A pagina 114, alla fine di uno dei capitoli brevissimi che compongono il romanzo, praticamente scene che entrano una nell’altra facendo il rumore del metallo contro il metallo, ho voluto chiamare mia madre e chiederle come stava.
A pagina 172, la fine, quando Joan Didion, nella forma di Maria Wyeth, scrive “So che cosa significa ‘nulla’, eppure continuo a giocare”, ho voluto allontanare il libro dal mio comodino, ho voluto non dormirci vicino, perché avevo paura che se l’avessi fatto il gioco e il nulla si sarebbero confusi di nuovo nella mia anima come molto tempo fa.
A libro chiuso, ho deciso che per una volta sarei stata molto seria con voi: questa storia racconta di depressione, amori svuotati e forse mai pieni, amore materno violentato dalla malattia, dall’aborto, dall’uomo. Questa storia racconta di indipendenza quando insegue Maria, sola, sulle strade della California a bordo di una Corvette, di dipendenza quando la scopre prendere dei farmaci o attendere la telefonata di uno degli amanti. Entrambi, farmaci e amanti, degni inutilmente di speranza. Questa storia racconta di sogni su come sarebbero potute andare le cose e di incubi su come invece sono andate. Di deserti di roccia e sabbia, e di deserti interiori, entrambi senza contorno.
Questa storia racconta, infine, la femminilità, ed è per questo che è stata difficilissima.
Ed è per questo che mi è piaciuta da morire.
Joan Didion, Prendila così, Il Saggiatore 2014, pp. 176. Traduzione (perfetta) di Adriana Dell’Orto.
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