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Quella volta che volevano farmi sparare

La newsletter #SognaAmericano, a cui molti di voi sono iscritti, è uno dei progetti su cui sto investendo molto ultimamente. È un appuntamento mensile intimo e potente, in cui mi sento libera e allo stesso tempo utile. Ecco perché ogni tanto ripropongo sul blog le lettere che ritengo più significative dal punto di vista della mia piccola grande missione. Andare là dove ho viaggiato, nei paesini remoti che ho scoperto, nei motel e nei diner dove mi sono fermata, nei luoghi dei libri che ho letto da sola o ad alta voce, luoghi in cui magari non riesci ad arrivare da solo: andare là dove l’America si svela più problematica e affascinante. Anche grazie, ovviamente, alla voce di chi lì ha vissuto.

In questi giorni è stato inevitabile ricordare quella volta che volevano farmi sparare.

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Era in Illinois, durante quel famoso scambio professionale che sancì l’inizio della vita della McMusa. Ci portavano in giro, di città in città, per conoscere alcune realtà professionali simili alle nostre e per fare esperienza delle usanze del posto.

Il posto: un agglomerato di contee prevalentemente rurali e universitarie 3 ore a sud di Chicago. Il Midwest, i campi di grano, i silos in lontananza, la musica country sui tir e nei locali, le strade dritte verso l’orizzonte irraggiungibile, il grande verde.

La famiglia che ospitava me, quel giorno, ci portò da amici. Gli amici ospitavano un’altra ragazza del nostro gruppo ed erano davvero adorabili: madre, padre e due figlie, una famiglia che aveva un piccolo impero di grano e soia e che però manteneva lo spirito semplice, gioviale, ospitale delle tipiche famiglie di campagna. Quel pomeriggio, presi da una generosa intenzione di farci stare bene, vollero farci provare l’America, l’America che noi in Italia non avremmo mai potuto provare, l’America delle cose comuni ma uniche.

Come prima cosa, guidammo una mietitrebbiatrice enorme. Poi andammo in giro per quei campi sterminati al tramonto con una macchinina da golf. Poi giocammo in una specie di hangar con diversi attrezzi agricoli dalle dimensioni pantagrueliche. Poi andammo a sparare alle lattine nel campo. Prima con una pistola e poi con un fucile.

Io non sparai. Volevano farmi sparare per generosità, ma io – in preda a un panico corporeo che mi dava tremore e capogiri – non sparai. Io dissi: grazie, ma sapete, per noi le armi vogliono dire guerra e io non so se voglio che le mie mani facciano esperienza di una cosa che uccide.

Io non sparai, avevo paura di fare male a me e a loro, anche se tutt’intorno c’era il vuoto, loro mi stavano porgendo il fucile per generosità ma io corsi via in casa. Io non sparai e loro furono deliziosi nel capire le mie ragioni, mi riaccompagnarono in casa e mi fecero un tè. Io non sparai ma i miei amici sì, e quando tornarono in casa per raccontarmelo davanti al tè mi dissero, in italiano per non farsi capire: è incredibilmente facile. Prendi la mira, tiri il grilletto e vedi la lattina che salta.


Il tema delle armi fu uno dei più discussi in quel viaggio e ancora oggi, a distanza di 5 anni, per me resta la ragione principale per cui faccio fatica a pensare di vivere negli Stati Uniti. Oggi che sono passati 5 anni ma anche oggi più che mai: proprio mentre vi scrivo Trump sta parlando a una conferenza nel Maryland. Ha fatto sua l’idea di quell’idiota che ha proposto di armare i professori dopo i tragici fatti della scuola di Parkland in Florida.

Con tutta la semplicità di cui dispongo provo a dirti una cosa: una decisione così ovvia e umana, come quella di non desiderare il possesso di qualcosa che possa uccidere gli altri, non è immune dal potere della cultura. La cultura, in questo caso, è il secondo emendamento della Costituzione americana, un’idea dentro la quale nasci e che non metti mai in discussione per tutta la vita, soprattutto se vivi sempre dentro gli stessi confini (voi non avete le armi in Italia? Ci chiedevano sconvolti). Il cittadino americano ha diritto di armarsi per costituzione; l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Come le confuti affermazioni così, mentre pensi tutti giorni ad arare il tuo campo?

Non ti ho voluto parlare di Trump o della National Rifle Association, non ho scelto di concentrarmi sulle milizie armate indipendenti (ma se vuoi che lo faccia, prima guarda Louisiana. The Other Side di Roberto Minervini oppure leggi questo reportage di George Saunders – giusto per nominare le prime cose che mi vengono in mente – e poi chissà se ne avrai ancora bisogno), non ho preso ad esempio chi ama le armi. Ho voluto raccontarti una storia comune, fatta di persone generose e attente, che hanno come tutti almeno una pistola e un fucile in casa, li tengono sotto chiave per proteggere i figli ma li offrono come passatempo tipicamente americano a dei giovani ospiti italiani, per farli stare bene.

Sto andando per le lunghe, ma hai capito. Non è il palesemente sbagliato che ci preoccupa, è il normalmente diffuso. L’idea che possedere un’arma sia ok. Come per noi è ok una cosa forte, magari un po’ pericolosa, ma necessaria.

Proprio perché si tratta di culture diverse che si scontrano per noi è impossibile capire fino in fondo, dai nostri schermi al di qua dell’oceano, il rapporto con le armi degli americani comuni, delle famiglie normali, delle donne che vivono da sole o dei veterani. Ho chiesto aiuto alla letteratura ma, sai, neanche lì ho trovato molti appigli. Il web in questi giorni offre tantissimi spunti critici sulla situazione a monte, dalla prospettiva di chi dovrebbe decidere cosa fare in generale. Ma come possiamo capire cosa sta in basso, come possiamo rispondere a quello sguardo sconvolto di chi ci chiede come facciamo noi in Italia a difenderci, come possiamo penetrare e comprendere modelli di vita così lontani da noi?

Perché io ci credo davvero, che le cose riesci a cambiarle se capisci (o almeno avvicini) le ragioni di chi le fa. Poi certo, che dall’alto decidano per il meglio, e che lo facciano alla svelta. Cambiare una vecchia cultura in modo civile e assennato è la più grande delle sfide.

 

Ti dicevo: trovare una narrazione comune sul rapporto con le armi non è così facile. Gli scrittori non ne possiedono? È un argomento sul quale scrivere crea imbarazzo? L’unica prospettiva possibile è quella legata alla violenza, alla strage, al crimine, all’investigazione (quindi allontanando le armi dalla vita quotidiana e inserendole in un contesto eccezionale)? Provo a offrirti tre spunti, sperando che tu possa trovare in ognuno di questi quell’inestricabile elemento culturale della quotidianità su cui abbiamo ragionato finora.

  1. Gun Nation: una narrazione per immagini del fotografo Zed Nelson sulla diffusione delle armi in America. Ecco, lui ha colto proprio quello che le parole non riescono a fare: non il contesto eccezionale, ma quello comune. Sono 26. Fanno impressione. Non perderti le didascalie di lato.

  2. Los Lost Boys: un racconto (splendido) di Ryan Gattis con protagonisti marginali che arrivano da un contesto di grande disagio (quindi non proprio comune). La prima parte, tuttavia, fa riflettere su una cosa: esiste veramente un confine netto tra difesa e attacco nella testa di chi va a comprare una pistola?

  3. The Past Wasn’t Done With Me: quando l’ho letta ho pianto, quando l’ho ascoltata pure. È la storia di uno scrittore, Kemp Powers, che all’età di 14 anni spara e uccide il suo migliore amico. Per caso. Qui trovi il link all’audio, nel titolo quassù c’è il link al testo.

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Buona lettura! Ci sentiamo, se vorrai, l’ultima domenica di marzo, il 25 🙂


 

Non tutte le persone che mi seguono riescono venire in viaggio con me. Non tutte possono partecipare ai miei corsi  in Italia. Tutti voi che siete qui, tuttavia, avete un’esigenza comune: essere portati là dove per mille motivi non arrivate da soli. Investo gran parte del mio tempo libero per aiutarti a fare questo grande salto oltreoceano e, soprattutto, a farlo non a caso, a non perderti.

A te andrebbe di darmi una mano con una piccola (grande) donazione? Te ne sarei grata! 


Le donazioni aiutano me a portare avanti i servizi che propongo gratuitamente e te ad andare alla scoperta di quell’America autentica e lontana che tanto ci affascina.

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