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Siamo tutti Red Baker

Era novembre 2013 quando, seduti al tavolo tondo della torteria libreria Luna’s Torta, Beppe, il libraio nonché mio compagno di lavoro di quel pomeriggio, spezzò la monotonia dei rispettivi schermi del pc per dirmi: “Ah, devo parlarti di una cosa. Tu che sei appassionata di letteratura americana sicuramente vorrai sapere che stanno per nascere una nuova casa editrice e una nuova collana dedicate alla scrittura di alcuni autori statunitensi da noi ancora poco conosciuti. La casa editrice si chiama Barney Edizioni, la collana I Fuorilegge.”

“Cazzo!”, fu la mia risposta interiore. “Certo che voglio sapere, dimmi di più!”, fu quella esteriore. Chiusi il pc e bastò l’attimo di silenzio che seguì la mia esclamazione privata e colorita perché da quel momento fossi inevitabilmente agganciata al progetto.

Nei mesi successivi contattai Nicola Manuppelli, curatore della collana e traduttore di quasi tutti i Fuorilegge, lo intervistai, ci scambiammo impressioni e informazioni, e infine ci demmo appuntamento per presentare a Torino Robert Ward e il suo romanzo, il primo della collana, Io sono Red Baker. Ci siamo quindi conosciuti di persona solo martedì 11 febbraio 2014, seduti a chiacchierare di scrittori americani a un tavolo questa volta quadrato della stessa Luna’s Torta, mentre Beppe apriva le porte della sua libreria e sistemava le copie del libro di Ward, da fuori entravano un sacco di belle persone e si sedevano qua e là, circolavano molti bicchieri di vino, l’ospite d’onore gradiva i prodotti enogastronomici della nostra cara terra.

Alle 21 di quella sera è iniziata la presentazione di Io sono Red Baker, il romanzo a metà strada tra disperazione e amore, in bilico tra bene e male, il romanzo che in italiano traduce l’americano tough, il romanzo dell’umana difficoltà che in molti stavamo aspettando.


Io sono Red Baker

La presentazione si è articolata attorno a questi nodi portanti:

  1. lo scrittore italiano Luca Ragagnin legge alcuni suoi racconti tratti da Cinque Sigilli permettendo a tutti noi di entrare nella giusta atmosfera;

  2. Beppe fa gli onori di casa e presenta gli ospiti;

  3. Nicola presenta la collana, il libro e Robert Ward;

  4. Robert e Nicola leggono dei brani tratti dal romanzo;

  5. Claudio, responsabile commerciale della casa editrice, tenta di presentare una bellissima iniziativa di autofinanziamento tramite vendita di magliette fuorilegge che io interrompo goffamente pensando che sia il mio turno e iniziando a parlare al microfono;

  6. Claudio ristabilisce l’ordinato susseguirsi degli eventi;

  7. è il mio turno e faccio delle domande a Robert;

  8. Robert risponde alle domande;

  9. saluti e alcol.

A fine serata siamo tutti molto “insieme”, pare che, in un certo senso, ci siamo trovati.


foto serata

Robert Ward a sx, Nicola Manuppelli a dx.


Sembra essere un effetto del caso e invece no: è il senso di comunità, il senso di una lettura che – al pari di un concerto, di un buon film o di un momento intenso e condiviso – sta circolando perché piace ai lettori, più piace e più circola, più circola e più i lettori si trovano bene a parlarne insieme e a cercarvi, se ne hanno voglia e i motori della loro sensibilità sono ben oliati, un proprio posto al suo interno. Una catena, questa, che nel mio caso era stata attivata mesi prima da un amico libraio e aveva trovato il suo culmine in un weekend di straordinaria lettura giusto prima di conoscerne il diretto responsabile, l’autore.


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Io sono Red Baker è la storia di un uomo di Baltimora, Maryland, vicino ai quarant’anni che una mattina viene licenziato, per un attimo non rielabora l’accaduto perché all’elaborazione preferisce l’oblio del whisky, e poi, inesorabile quanto la vita che tanto va avanti comunque, inizia a scendere progressivamente la scala fangosa della dignità umana: prima l’affetto per la famiglia, poi la considerazione del prossimo, poi l’amor proprio e quello, fino ad allora intoccabile ma poi definitivamente tradito, per gli amici. Tutto se ne va in merda. A fare da sfondo a questa disperata discesa c’è una città fredda, operaia e periferica, in cui le uniche note di colore sono il verde nauseante delle pareti dell’ufficio di collocamento e il bianco della neve in quel parco testimone degli ultimi ricordi davvero felici di Red; negli angoli delle strade si nascondono barboni pietosi senza naso o coetanei in coda, disperati, per farsi dare da un dottore un po’ magico – molto sinistro – le pillole di una temporanea salvezza. Red, in tutta questa storia, suda molto: suo è il punto di vista che ci racconta come un uomo può fallire, una volta dopo l’altra. Una volta dopo l’altra. E ancora.

Anche se fallire è proprio l’ultima cosa che vorrebbe fare.

L’incipit – tre paragrafi secchi e brevi in cui si condensa tutta l’impossibilità di una storia a lieto fine – è fortissimo. Altrettanto lo sono le numerose descrizioni di un uomo che, per quanto immobilizzato da una costringente routine da disoccupato, è in caduta libera verso il fondo e l’autore lo insegue, implacabile, usando il minor numero possibile di aggettivi. Questo è il segnale: la scrittura come la strada, senza abbellimenti, senza interventi, con tanta polvere, scarna e cruda. La scrittura precisa che ha avuto un enorme e insuperato maestro, Raymond Carver, che infatti di Robert Ward era molto amico.

Questo libro uscì in America nel 1985 dopo che, nello stesso giorno, fu rifiutato da ben 31 editori. Fu un bad day quello, mi ha detto Robert Ward una volta che i microfoni del Luna’s Torta sono stati spenti e abbiamo iniziato a chiacchierare. “Ma poi il romanzo è finito nelle mani dell’ex ragazza di Jack Kerouac, Joyce Johnson, fine scrittrice, che mi ha chiamato per dirmi che lo avrebbe pubblicato la Dial Press e, soprattutto, che secondo lei quel libro a Jack sarebbe piaciuto molto. E questo, sai, mi bastò.” Nel giro di qualche anno Robert Ward pubblicò altri romanzi e cominciò anche a fare lo sceneggiatore, un lavoro che lo salvò – letteralmente – dal lastrico.


Siccome quell’idea dell’essersi trovati è partita proprio e anche dallo stesso Ward, con sincera curiosità mi chiede cosa faccio nella vita. Glielo racconto e, quando viene a sapere che tengo un corso di letteratura americana in cui – di recente – ho discusso proprio Carver, decide di colpirmi con un aneddoto dolcissimo. “Carver era un grande uomo e un grande scrittore. Dieci giorni prima di morire mi chiamò e con una voce flebile mi disse ‘Ehi Rob, sono Ray. Non è che hai un po’ d’erba?’ Non parlava sul serio, quello era semplicemente il suo modo di salutarmi. Io so che mi telefonò per dirmi addio, sapeva benissimo che stava morendo. E con quella voce fioca..  Ray era proprio uno sweetheart.”

Ora, sweetheart è una delle parole americane che più mi sciolgono il cuore. Da sempre. Sentirla pronunciare da uno scrittore, invecchiato negli anni e nell’esperienza, nei confronti di un suo amico di enorme talento e fama mondiale morto un po’ troppo presto, ecco questa cosa mi ha fatto proprio emozionare. Ancor più perché, in uno dei miei interventi microfonati, io gli avevo chiesto spiegazioni sulla sua scelta di permettere al protagonista del romanzo di tradire il migliore amico, allontanando così – almeno un po’ – le simpatie di un lettore fino a quel momento totalmente dalla sua parte. Lui aveva risposto così: “Quando sei disperato le tue azioni non possono che avere conseguenze disperate,” confermando – a parer mio – la grande conoscenza delle umane faccende e, in misura ancora maggiore, l’impressionante partecipazione alla vita degli altri che caratterizzano la sua scrittura.

Una scrittura che arriva da quella Baltimora degradata dove è ambientato Io sono Red Baker e dove per tanti anni Robert Ward ha vissuto, una scrittura che gli ha valso l’ironia di tanti suoi concittadini, nonché l’incredulità del sindaco di allora che non voleva credere alla veridicità di alcuni episodi inseriti nel romanzo. “Alcuni amici mi chiamavano per scherzo Hemingway perché, sai, scrivere non è una cosa che si fa molto da quelle parti.” Adesso che lo scrittore vive a Los Angeles, però, delle acciaierie del Maryland, delle sue periferie postindustriali, della routine svuotata di tanti suoi abitanti non parla certo male e, anzi, ce ne regala un ritratto che, per quanto a volte violento e lontano da qualsiasi definizione di sogno americano, non può che esprimere una riconoscibile verità.

E allora si torna all’inizio di tutta la storia, a quando avevo chiesto a Nicola di dirmi che cosa stava sotto alla scelta di questi scrittori, al perché proprio loro e non altri. E lui mi aveva risposto con Bruce Springsteen, forse inconsapevole di che tasto sensibile stesse toccando: “Questi,” mi disse, “sono i racconti che indichi quando qualcuno ti chiede: ma dove le trovo in letteratura le storie e i personaggi di cui canta Bruce?” Nelle strade di Baltimora, in effetti, nei confini sfocati tra la sua notte e il suo giorno, in quelle vite a cavallo della linea dove i sogni si trovano e i sogni si perdono. Qui.

Some folks are born into a good life Other folks get it anyway anyhow I lost my money and I lost my wife Them things don’t seem to matter much to me now Tonight I’ll be on that hill ’cause I can’t stop I’ll be on that hill with everything I got Lives on the line where dreams are found and lost I’ll be there on time and I’ll pay the cost For wanting things that can only be found In the darkness on the edge of town

Che siate fan di Springsteen o no, buon ascolto e soprattutto buona lettura di Io sono Red Baker. Se la legge si infrange così, allora benvenuti Fuorilegge.


marlon

Questa maglietta la puoi avere anche tu! Clicca sull’ultimo link di questo post, cerca un po’ e scoprirai come.


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Robert Ward, Io sono Red Baker, Barney Edizioni 2014, pp. 352. Traduzione di Nicola Manuppelli.

Per restare aggiornati sulle date del booktour, sulle prossime uscite e su tutte le iniziative legate alla collana Fuorilegge, questo è il posto giusto.

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