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Texas, tutto un altro paese

C’era una volta un libro – il solito libro – di cui vi ho già parlato tantissime volte, State by State. A Panoramic Portrait of America, antologia in Italia per ora inedita. Ve ne ho parlato qui, a lezione e in viaggio, ma soprattutto ve ne ho parlato il giorno che ho deciso di dare inizio a questa rubrica: 50 scrittori per 50 stati, frammenti piuttosto brevi dei ritratti geografici contenuti nel libro suddetto.

In questo periodo, come sapete, i miei occhi leggono solo Texas. E cosa racconta, come racconta il Texas questo libro? Con le parole di Cristina Henríquez, scrittrice che probabilmente conoscete per questo romanzo. Lei non è originaria del Lone Star State, vi si è trasferita arrivando da fuori, e forse proprio in virtù di questo lei del Texas riconosce subito una cosa: noi ce lo aspettiamo in un modo, ma lui è tutto in un altro.

In attesa di raccontarvi tutta la sua esperienza al corso sul Wild Wild Texas e di portarvi nei luoghi che racconta durante i prossimi Book Riders, ecco una piccola porta dalla quale iniziare a sbirciare.

Questo è quello che molte persone pensano del Texas: pianure polverose e vaste praterie picchiettate di rotolacampo e artemisia; una terra con il solito canyon screziato e i bacini ampi; un luogo occupato da allevatori di bovini e cowboy e cavalli; il tutto sotto un cielo enorme e aperto. Il Texas è i film di John Wayne e le mastodontiche trivelle di petrolio e il presidente George W. Bush e il posto dove, secondo la canzone, vivono tutte le ex di George Strait.

È tutto vero.

In un certo senso. Qui il cielo sembra vasto soprattutto perché la sua vista non è interrotta dallo spiegarsi infinito di terra piatta. A proposito degli allevatori, mandrie di bovini longhorn pascolano su un tappeto di lupini. Più o meno ogni macchina ha un adesivo W. THE PRESIDENT sul paraurti o sul vetro posteriore (i texani ne hanno fatta di strada da quando nel 1845 il senatore di stato Guy M. Bryan scrisse “Siamo tutti democratici in Texas”). E il momento in cui in qualsiasi bar di qualsiasi parte dello stato mi sia trovata attacca una canzone di George Strait, la gente alza in alto i calici e canta insieme, sempre.

Il Texas, ovviamente, è più della sua facciata e più degli stereotipi. Qualsiasi posto lo è. Ma il folclore associato al Texas sembra essersi accumulato con più spessore rispetto agli altri. Devi trivellare molto più a fondo per trovare quello che giace al di sotto.

Prima di trasferirmi in Texas, ricordo di essermi seduta nel mio appartamento in Iowa e di aver guardato uno di quegli spot che realizza l’ufficio statale del turismo per convincere le persone a visitare le sue località magnifiche e panoramiche e ideali per la famiglia. Lo spot terminava con lo slogan: “Texas. È tutto un altro paese.” Che sembrava molto meno un invito e molto più una minaccia col dito puntato. Del tipo: “Texas. Non hai idea di dove ti stai cacciando.” Era pieno di un tale orgoglio spaccone e pomposo. Chi si crede di essere questa gente, poi? Pensai. E il secondo dopo, seriamente: ma dove sto andando a cacciarmi?

Avevo vissuto in sei stati fino ad allora – Delaware, Florida, Virginia, Indiana, Illinois e Iowa -, in contesti che andavano dalla cittadina di montagna così piccola che i numeri telefonici erano lunghi solo cinque cifre, ai sobborghi stipati di strade e strade di case identiche, all’appartamento di città con tre serrature di sicurezza più una catenella alla porta, a rilassate cittadine universitarie. Ma nessuno di questi contesti sembrava una preparazione adeguata per quello che pensavo sarebbe stato il Texas. Non che mi importasse molto a quel punto. Mio marito ed io, grazie a un’opportunità di lavoro, ci eravamo già impegnati a trasferirci nel Southwest, in Texas, a Dallas nello specifico. Per i tre anni a venire quello sarebbe stato il posto che avrei chiamato casa.

 

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