La McMusa

1 mag 20133 min

Il dolce dramma di avere un sogno in America

Questa recensione doveva comparire l’anno scorso su una rivista un po’ underground e molto, molto bella (Routesmag), che però ha pubblicato solo i primi due numeri e poi non ce l’ha più fatta. La ripropongo oggi perché questi libri e questo autore sono i frutti esemplari di una terra stupenda che sto scoprendo in questi giorni, il Pacific Northwest. Buona lettura!

Richard Brautigan è il nome – ancora troppo poco conosciuto in Italia – di un autore americano nato a Tacoma, nello stato di Washington (la West Coast più fredda però patria del grunge), nel 1935 e morto suicida (un colpo letale di una calibro .44) nel 1984, quando aveva quarantanove anni. Le sue biografie ritraggono una personalità dolce, autentica, pastorale; raccontano di una forte inclinazione al psichedelico, di una diagnosi di schizofrenia paranoica curata con l’elettroshock e di una fresca giovinezza trascorsa a San Francisco negli anni dei fiori, i Sessanta. Non era un hippy, non era un beat, pur essendo stato entrambe le cose insieme, percorrendone in solitaria i canoni e la definizione; a volte chiacchierava di politica e letteratura con Ferlinghetti, Ginsberg e Kerouac, ma la sua storia personale non fu come la loro, celebre e ribelle, in senso quasi piano. La sua fu una storia di distanze esistenziali e nostalgie, geografiche come umane, troppe poche volte intiepidite dal piacere della scrittura. La sua fu una storia alternativa agli stessi che così amavano definirsi (e, in effetti, erano).

ISBN, la casa editrice italiana che oggi cura la pubblicazione e la ristampa di tutta l’opera di Brautigan, sistema con maestria questa frase nella postfazione della prima edizione italiana del 2005 di American Dust, quando, a un certo punto, viene l’ora di definire il carattere peculiare dell’autore: “Un miscuglio, quindi, di camicie a quadri da boscaiolo e anarchia, di machismo e sensibilità, lo stesso profumo di oceano, la stessa lontananza dai luoghi in cui accadono le cose”. A questo si aggiungono alcune esperienze di vita dal segno non tanto indelebile quanto decisamente uncinato e maligno: l’omicidio involontario del migliore amico all’età di dodici anni, le peregrinazioni a seguito di una madre sempre troppo occupata a cambiare compagno e lavoro per dare ai figli giuste dosi di attenzione e poi volontariamente abbandonata, una decade di successo travolgente durante l’epoca della contestazione giovanile e poi il silenzio eterno dell’autore dimenticato nelle retrovie della libreria perché nascosto dagli altri davanti. L’alcol, infine.

Altri scrittori si sono suicidati prima e dopo di lui, nell’America del caro vecchio sogno: Hemingway l’incazzato, Wallace il complicato, Cobain il maledetto. Ricordandoli così, geni in difficoltà per cui l’accostamento di un solo – lapidario – aggettivo è grave onta ma comoda stilizzazione, tra loro si nota mancare l’infantile, il sentimentale, il nostalgico naturalista. Il surreale. Mancava il cantore della natura, madre florida dell’America antica, dispensatrice di frutta e pesci che nutrono l’intelletto, la forza del corpo, l’idea della sacra libertà, la stessa storia dei suoi figli. Sempre che siano buoni, e sani. Brautigan era sì un uomo in difficoltà, ma i suoi libri sono il racconto dell’innocenza più disarmante, pura, allucinata, leggera e surreale del mondo, quella che precede la coscienza. Anzi, la sorpassa.

Due esempi, all’inizio e alla fine della sua vita di scrittore e di uomo.

Più narrativo, autobiografico e (se possibile) malinconico è invece American


Pesca alla trota in America, Richard Brautigan, Einaudi, pp. 160 | 🛒 Acquista su Ibs.it.

American Dust , Richard Brautigan, minimum fax, pp. 130 | 🛒 Acquista su Ibs.it.

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