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Il dolce dramma di avere un sogno in America

Questa recensione doveva comparire l’anno scorso su una rivista un po’ underground e molto, molto bella (Routesmag), che però ha pubblicato solo i primi due numeri e poi non ce l’ha più fatta. La ripropongo oggi perché questi libri e questo autore sono i frutti esemplari di una terra stupenda che sto scoprendo in questi giorni, il Pacific Northwest. Buona lettura!

Richard Brautigan è il nome – ancora troppo poco conosciuto in Italia – di un autore americano nato a Tacoma, nello stato di Washington (la West Coast più fredda però patria del grunge), nel 1935 e morto suicida (un colpo letale di una calibro .44) nel 1984, quando aveva quarantanove anni. Le sue biografie ritraggono una personalità dolce, autentica, pastorale; raccontano di una forte inclinazione al psichedelico, di una diagnosi di schizofrenia paranoica curata con l’elettroshock e di una fresca giovinezza trascorsa a San Francisco negli anni dei fiori, i Sessanta. Non era un hippy, non era un beat, pur essendo stato entrambe le cose insieme, percorrendone in solitaria i canoni e la definizione; a volte chiacchierava di politica e letteratura con Ferlinghetti, Ginsberg e Kerouac, ma la sua storia personale non fu come la loro, celebre e ribelle, in senso quasi piano. La sua fu una storia di distanze esistenziali e nostalgie, geografiche come umane, troppe poche volte intiepidite dal piacere della scrittura. La sua fu una storia alternativa agli stessi che così amavano definirsi (e, in effetti, erano).

ISBN, la casa editrice italiana che oggi cura la pubblicazione e la ristampa di tutta l’opera di Brautigan, sistema con maestria questa frase nella postfazione della prima edizione italiana del 2005 di American Dust, quando, a un certo punto, viene l’ora di definire il carattere peculiare dell’autore: “Un miscuglio, quindi, di camicie a quadri da boscaiolo e anarchia, di machismo e sensibilità, lo stesso profumo di oceano, la stessa lontananza dai luoghi in cui accadono le cose”. A questo si aggiungono alcune esperienze di vita dal segno non tanto indelebile quanto decisamente uncinato e maligno: l’omicidio involontario del migliore amico all’età di dodici anni, le peregrinazioni a seguito di una madre sempre troppo occupata a cambiare compagno e lavoro per dare ai figli giuste dosi di attenzione e poi volontariamente abbandonata, una decade di successo travolgente durante l’epoca della contestazione giovanile e poi il silenzio eterno dell’autore dimenticato nelle retrovie della libreria perché nascosto dagli altri davanti. L’alcol, infine.

Altri scrittori si sono suicidati prima e dopo di lui, nell’America del caro vecchio sogno: Hemingway l’incazzato, Wallace il complicato, Cobain il maledetto. Ricordandoli così, geni in difficoltà per cui l’accostamento di un solo – lapidario – aggettivo è grave onta ma comoda stilizzazione, tra loro si nota mancare l’infantile, il sentimentale, il nostalgico naturalista. Il surreale. Mancava il cantore della natura, madre florida dell’America antica, dispensatrice di frutta e pesci che nutrono l’intelletto, la forza del corpo, l’idea della sacra libertà, la stessa storia dei suoi figli. Sempre che siano buoni, e sani. Brautigan era sì un uomo in difficoltà, ma i suoi libri sono il racconto dell’innocenza più disarmante, pura, allucinata, leggera e surreale del mondo, quella che precede la coscienza. Anzi, la sorpassa.

Due esempi, all’inizio e alla fine della sua vita di scrittore e di uomo.


Pesca alla trota in America, il suo più grande capolavoro uscito nel 1967 e venduto per un totale – straordinario – di due milioni di copie in tutto il mondo, è un romanzo fatto di figurine straniate, scollegate una dall’altra ma percorse tutte da uno stesso spirito legato alla pesca e alle trote, che prende forme sempre diverse ma che, allo stesso tempo, unisce stati della mente (l’America, in primis, “solo uno stato della mente”, come viene definita nel libro), riferimenti mitologici (la natura buona e Moby Dick, solo per dirne due) e storici (Benjamin Franklin su tutti), desideri infantili e primordiali, domande innocenti, ironie primitive ma franche e associazioni di idee avanguardistiche. Sì, tutto questo è Pesca alla trota in America, un romanzo di scrittura poetica innocente, che, secondo l’autore che ne modella la materia e gli ingredienti, deve necessariamente finire con la parola maionese, per di più pizzicata da un errore di ortografia.

Più narrativo, autobiografico e (se possibile) malinconico è invece American

Dust, che, immeritatamente e a differenza di Pesca alla trota in America, riscosse poco successo e segnò la fine del già delicato equilibrio creativo del Brautigan scrittore. Peccato, perché tra le righe sempre così drasticamente innocenti e interrogative del romanzo, l’autore aveva raccontato la sua difficoltà umana più significativa e traumatica senza mai rendersi contagioso e intristire il lettore. Al contrario, il protagonista dodicenne del romanzo esplora curioso per il lettore le zone più candide, fantastiche e magiche dell’immaginazione senza mai sfiorare il tenero fine a sé stesso o, peggio, il patetico, anzi instaurando con l’immagine di Brautigan adulto, narratore onnisciente, un rapporto di scambio libero e portando alla luce universali domande sul senso delle azioni che un uomo si trova a compiere. Un senso che spesso avviene così, senza apparente motivo, magari solo per non aver ascoltato la fame e non aver divorato un giorno un dannato, gustoso, facile e americano hamburger.

 

Pesca alla trota in America, Richard Brautigan, Einaudi, pp. 160 | 🛒 Acquista su Ibs.it.

American Dust , Richard Brautigan, minimum fax, pp. 130 | 🛒 Acquista su Ibs.it.

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