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Questo archivio non ha senso (ma ha molto altro)

Poco più di un anno fa avevo assistito alla presentazione del libro di Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, alla Biblioteca Civica di Torino: a discuterne c’erano l’autrice in persona e lo scrittore Martino Gozzi. Ricordo che ero andata a quell’appuntamento piuttosto elettrizzata, ma ricordo anche che ne ero uscita un po’ confusa: avevo capito che io di quel libro non avevo capito praticamente nulla.


Mi spiego: il tema dei “bambini perduti”, ovvero quei minori che cercano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti a volte da soli, a volte con le famiglie, a volte in gruppo affidati ai cosiddetti coyote e si perdono o, più brutalmente, vengono separati dai propri genitori rischiando di non rivederli MAI PIÙ, questo tema mi ha da sempre trainato profondamente. Mi ha sempre colpito nel cuore al punto da farmi prendere decisioni drastiche ma, ancor prima, al punto da condizionare molto le mie letture giornalistiche (chi segue le rassegne degli articoli da un po’ se ne sarà accorto) e letterarie. La frontiera, aggiungo, è una zona geografica e culturale attorno alla quale gravito con una passione singolare e queste storie di dolore e speranza riescono a farsi strada dentro di me ogni volta un pezzo di più.

Ero arrivata alla presentazione, dunque, con un’aspettativa piuttosto decisa: Valeria Luiselli, scrittrice messicana su cui gli occhi della critica erano (e sono) puntati da un po’, mi avrebbe raccontato meglio di chiunque altro quelle storie di dolore e speranza, quei destini così ingiusti di cui l’anno scorso si parlava spessissimo ma a cui nessuno sembrava riuscire a porre rimedio (erano i tempi della politica Zero Tolerance di Trump, a causa della quale migliaia di bambini venivano separati dai propri genitori al confine e messi in centri di detenzione molto simili a delle gabbie. Se siete interessati alle conseguenze di questa scelta, proprio due giorni fa è uscito questo articolo del New York Times). Quando mi ritrovai con il libro in mano a presentazione ultimata capii che no, l’autrice non avrebbe fatto quello che mi aspettavo. O, almeno, non soltanto. Nelle sue parole c’era troppa letteratura, nel suo approccio c’era una sete di scrittura che sentivo avrebbe complicato le cose.


E infatti quando lessi il libro - solo recentemente, un paio di settimane fa - ne ebbi la conferma.


Archivio dei bambini perduti è un romanzo che somiglia al reportage ma che, pur inglobando nella sua struttura fatti che accadono realmente nel mondo e pur presentando prove apparentemente inconfutabili della veridicità di alcune vicende (una collezione di Polaroid, ad esempio), rimane a tutti gli effetti un’opera di fiction. Un’opera che con la fiction gioca abilmente e che con la scrittura intrattiene un rapporto piuttosto intellettuale e sperimentale. Un uomo e una donna si innamorano sul lavoro: entrambi collaborano a un progetto di registrazione e archiviazione dei suoni e delle parlate di New York. Sono documentaristi sonori, ma sulle sottigliezze di questa definizione e sull’importanza dell’archeologia e della morfologia dei suoni i due dibattono molto. Troppo, per abitare le pagine di un libro in cui i suoni purtroppo non si sentono. Insieme ai loro figli (avuti da matrimoni precedenti: lei una femmina, lui un maschio, chiamati così - femmina e maschio - per quasi tutta la durata della storia) si imbarcano in un’avventura peculiare: andare a documentare i suoni di due gruppi di persone inesistenti. Lui cercherà i ricordi degli Apache e dell’ultimo indiano, Geronimo, in Arizona; lei si metterà alla ricerca dei bambini perduti, appunto, sul confine con il Messico: non quelli che partono dal Sud America, non quelli che valicano il confine, bensì quelli di cui non si ha più notizia. Portano con sé, nella loro automobile in cui li seguiamo per la maggior parte della narrazione, 7 scatole: le prime 4 sono del marito e contengono tantissimo materiale bibliografico e di repertorio per le sue ricerche, la quinta è della moglie, la sesta è quella della femmina e la settima è quella del maschio. Ci vuole appena qualche pagina per accorgerci che quelle scatole diventeranno anche alcuni dei capitoli del libro e che le ultime due si andranno riempiendo man mano che la narrazione procederà, creando rimandi finzionali davvero intricati.


Affascinante fin qui? Molto. Ma le cose si complicano ancora di più.

La prima parte del libro, infatti, è narrata in prima persona dalla madre mentre la seconda in prima persona dal figlio maschio. L’ultima scatola contiene Polaroid mentre un intero capitolo (quello intitolato al canyon che produce echi) è un lungo monologo senza punti fermi (intendo proprio la punteggiatura) in cui i due bambini veri incontrano i bambini perduti. A intervallare la scrittura ci sono rapporti che testimoniano il ritrovamento dei resti ossei di alcuni di quei bambini, c’è una mappa, ci sono ritagli, poesie e appunti sparsi. Soprattutto c’è un libro nel libro, un libricino rosso che la madre legge spesso da sola, in cui è raccontata la storia dei bambini perduti che raggiungono il confine degli Stati Uniti a bordo di un treno. Lo stesso treno di cui parla la radio nell’auto, un treno vero, anzi IL treno che tutti i migranti conoscono, non solo quelli bambini: la Bestia.


In mezzo a tanta, significativa sperimentazione formale - in cui non dobbiamo perdere di vista anche l’elemento primario, quello sonoro - l’autrice, a mio parere, racconta principalmente quattro storie intrecciate. La prima è quella on the road, quella ambientata in una macchina che attraversa mezza America e nei motel in cui i quattro trascorrono la notte, quella dai cui finestrini si conoscono paesaggi diversi e società diverse. La seconda è quella relazionale: marito e moglie si stanno allontanando sempre di più mentre i due fratellastri sono sempre più uniti, ognuno individualmente sta facendo un viaggio diverso ma tutti i legami si influenzano a vicenda tanto da includere anche quelli con i personaggi che stanno cercando e i paesaggi che stanno attraversando. La terza è una storia americana, la storia del più forte sul più debole: i nativi americani e i migranti, una storia di ingiustizie e di soprusi a cui si cerca individualmente di porre riparo (o almeno coscienza). Infine c’è la storia che ha la forma della ricerca, una ricerca concreta ma anche morale, autoriale, politica, intellettuale. Una ricerca che si condensa in questa serie di domande che io trovo davvero rappresentativa dell’intero libro.

La risposta a tutte queste preoccupazioni è il libro stesso, che - come avrete capito - ha sconfinato in ambiti a cui le mie aspettative neanche badavano e mi ha lasciato più vuota e al contempo più piena di prima. Questo libro è realmente un archivio, un archivio alla Borges, forse. Dove non c’è un ordine alfabetico né un ordine di senso perché l’ordine, in ultimo, non è la chiave che lo governa. La chiave, se posso azzardare a ipotizzarne una, è la vibrazione. Che, non per niente, è quella cosa invisibile e primitiva che propaga il suono.


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Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, La Nuova Frontiera, traduzione di Tommaso Pincio.

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