Negli anni Cinquanta e Sessanta, dopo che il territorio americano era stato battezzato da Jack Kerouac come una pagina autenticamente bianca su cui scrivere store genuinamente americane (ovvero senza influssi e riflessi europei), diversi altri ragazzi, scrittori e artisti si misero on the road. Non solo per fare un viaggio, ovviamente. Se c’era una cosa che la strada di Kerouac aveva insegnato ai suoi eredi era che l’esperienza dell’andare portava con sé quella della comunicazione (con le persone incontrate lungo il viaggio), della scrittura (il motore dell’auto che porta verso l'orizzonte è lo stesso che muove la penna e l’ispirazione) e della conoscenza (niente di accademico o intellettuale, sia chiaro; qui si parla di conoscenza di sé e della terra che si percorre). Molti di quei ragazzi on the road avrebbero poi spento i motori dei propri mezzi di trasporto (moto, macchine, furgoni, interi bus) solo una volta giunti a Woodstock, sancendo così una trasformazione generazionale che trovava in Jack Kerouac (e Neal Cassady) un motore - appunto - imprescindibile. Altri si ritrovarono a compiere rivoluzioni magari meno eclatanti ma pur sempre dirompenti o a condividere momenti della propria vita che a loro volta avrebbero cambiato la vita di diverse persone dopo di loro. Anche solo per una sera, anche solo attraverso un libro.
È questo il caso di Peter Beagle, scrittore ebreo cresciuto nel Bronx, che nel 1963 si mise in viaggio da New York a San Francisco con il suo amico Phil lasciando a noi lettori il piacere di leggere i dettagli e gli esiti di quella avventurosa esperienza in un libro-diario dal titolo Una lunga strada da fare. Non sappiamo se Beagle nel 1969 andò a Woodstock ma sappiamo che nei primissimi anni Sessanta studiò a Stanford e fu allievo dello scrittore Wallace Stegner. Tra i suoi compagni di classe - ed è qui che veniamo a conoscenza di una piccola grande detonazione letteraria - c’erano Ken Kesey (autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo nonché vera personalità rivoluzionaria e trasgressiva dell’epoca) e Larry McMurtry (il più grande scrittore texano vivente, autore di capolavori come Lonesome Dove e L’ultimo spettacolo). Se i destini letterari dei tre si confermarono decisamente diversi (Peter Beagle è diventato un autore fantasy di successo), molte delle loro aspirazioni presero forma sugli stessi banchi e molte delle loro conoscenze del tempo si contaminarono a vicenda (McMurtry spiegò a Beagle il valore della musica texana, ad esempio). Senza contare che alcuni di loro condivisero anche le stesse donne, ma questa storia la lasciamo per un’altra volta.
Dopo aver terminato gli studi ed essere tornato a New York, Peter Beagle decise di mettersi in viaggio verso San Francisco dove si trovava la sua fidanzata Enid e di farlo in compagnia del suo amico Phil Sigunick: non in auto, non in moto, non in furgone bensì in scooter. A bordo di due “motorette” tanto preziose da avere dei nomi umani (Jenny e Couchette) e tanto importanti da diventare spesso le protagoniste dei quadri narrativi on the road: noi lettori vediamo le loro silhoutte cariche di bagagli prima di vedere i due ragazzi; sentiamo i loro rantoli e scoppiettii prima di udire le parole dei due ragazzi; percepiamo i colpi di vento e gli aghi del gelo prima di venire a conoscenza delle sensazioni dei due ragazzi. E dove le portano, allora, questi due ragazzi?
L’America che percorrono Peter e Phil è tanto vasta da includere i paesaggi maestosi che conosciamo (dal Painted Desert al Joshua Tree, dalle Rocky Mountains alle praterie del Kansas) ma anche i paesini più dispersi dove fanno visita a dei loro amici o le città più famose dove però fanno fatica a integrarsi (l’esperienza a Las Vegas è in questo senso goffa e memorabile). E tuttavia questa America non è soltanto geografica: è il 1963, pochi mesi dopo quel viaggio Kennedy sarebbe stato ucciso e un anno dopo le proteste contro la discriminazione razziale avrebbero trovato uno storico traguardo (il Civil Rights Act). L’America si sta trasformando e Peter e Phil sono i testimoni di questo cambiamento, anche se spesso involontari: ascoltano battute razziste nelle tavole calde, si imbattono in proteste, apprendono le notizie dalle radio dei locali o dai reverendi delle chiese o dai leader dei gruppi con cui fanno amicizia. E infine, l’America che viene solcata da Peter e Phil a bordo dei loro scooter è inscindibilmente legata all’arte: si fermano qua e là (a volte in modo piuttosto rocambolesco e competitivo) per portare avanti ognuno la propria missione creativa. Peter scrive il libro che stiamo leggendo, Phil dipinge. Insieme, poi, suonano: alcune delle scene più gradevoli del libro, infatti, li vedono imbracciare chitarre comprate al banco dei pegni delle varie cittadine e intrattenere gli amici del momento. Uno dei loro musicisti di riferimento, infine, rivela quanto la loro cultura ebraica si rifaccia alla vecchia Europa: si tratta di George Brassens, famoso cantautore nonché poeta francese. Sarà proprio sulle note di una sua canzone che il loro viaggio - e il libro - finirà.
La strada della libertà spianata da Kerouac appena quindici anni prima ha trovato in questo libro una nuova rappresentazione: certo meno conosciuta, eppure altrettanto umana. Altrettanto completa. Nicola Manuppelli, traduttore e curatore del libro, scrive nella prefazione: “La tristezza è nelle corde di Beagle, al pari dell’ironia e della gioia. Un impasto che rende la sua scrittura molto dolce e malinconica.” Vero. Poi definisce Beagle usando quattro aggettivi che risuonano tanto appropriati quanto i bambini nati dalle note di quelle chitarre e i bambini che forse sono ancora i due protagonisti quando si mettono in viaggio: “beffardo, pensieroso, arruffato e anarchico.” Mentre Peter a bordo del suo scooter termina la sua fanciullezza e l’America che i due ragazzi attraversano perde la sua innocenza, noi lettori non possiamo che godere di ogni singolo incontro, dialogo, miglio, paesaggio di quel lungo viaggio. Di ogni pagina di questo sorprendente libro on the road.
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Peter S. Beagle, Una lunga strada da fare, Mattioli 1885, 280 pagine, traduzione di Nicola Manuppelli.
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