In Ohio si soffoca
- La McMusa
- 27 ago 2020
- Tempo di lettura: 4 min
La prima volta che lessi Le correzioni di Jonathan Franzen (era il 2007, il romanzo era uscito nel 2001, poco prima dell’attacco alle Torri) mi sentii soffocare. Se il romanzo americano era tornato a narrare nel senso pieno del termine, abbandonando il minimalismo e lo sperimentalismo formale di buona parte della fiction postmoderna, l’aveva fatto - a mio parere - spingendosi un po’ troppo in là: rimproveravo a Franzen, infatti, il fatto di aver costruito un mondo narrativo perfetto, dei personaggi rotondi e super caratterizzati, una trama stretta stretta e folta di situazioni e sentimenti lasciando però pochissimo spazio al lettore. A noi. Al nostro respiro, appunto.
Il romanzo di Stephen Markley, Ohio, mi sembra figlio di quel soffocamento.
Non posso non cominciare da qui la mia recensione del libro perché questo pensiero ha percorso la mia testa l’intero tempo della lettura. Markley non costruisce un mondo così perfetto come quello di Franzen (Ohio è la sua prima opera, e si sente) ma si mette nella sua scia, ne eredità l’anelito totalitario e, da bravo successore, cerca di fare quello che al maestro era sfuggito: lasciare uno spazio al lettore. Uno spazio che - lo anticipo - si concretizza nella tinta noir della trama, soprattutto nell’ultima parte, e nell’atmosfera sospesa, tesa dei finali: è accaduto qualcosa di misterioso e violento, tutti i personaggi sono coinvolti, i fili rimangono sospesi, noi lettori cerchiamo di legarli insieme. E poi l’epilogo, in cui - alla brava e vecchia maniera dei romanzi dell’Ottocento - i nostri sospetti vengono confermati o disattesi.

La storia orchestrata da Markley si ambienta a New Canaan, una cittadina immaginaria della provincia dell' Ohio che sembra incontrare piuttosto fedelmente il destino che ha caratterizzato negli ultimi decenni molte cittadine reali della Rust Belt: deindustrializzazione, isolamento, arretratezza e un forte senso di frustrazione e disillusione nei suoi abitanti. L’elemento che scatena l’avviarsi della trama è il funerale di Rick, giovane soldato ucciso in missione, di cui a New Canaan si seppellisce una bara senza corpo. Alla parata - in cui a sfilare sembra dunque essere più la bandiera americana sopra il feretro che il feretro stesso - partecipano diversi amici del liceo, ma sono gli assenti che poco dopo inizieranno a calcare la scena del romanzo in qualità di protagonisti. Uno alla volta. Capitolo per capitolo. Arrivando a New Canaan non il giorno del funerale dell’amico bensì qualche tempo dopo, tutti e quattro però durante la stessa misteriosa notte. Portando con sé - inutile dirlo - una serie di temi e questioni prettamente americane che, come era successo con Le correzioni di Franzen, iniziano pagina dopo pagina a togliere l’aria.
Oltre a quelle che caratterizzano la piccola cittadina di provincia elencate poco sopra (che rimangono sempre centrali, sia chiaro), vi sono tutte - e dico tutte - quelle complementari e di contorno: autolesionismo, disturbi dell’alimentazione, dipendenze varie (alcol, metanfetamine, oppiacei, erba e di sicuro qualcuna l’ho scordata), disoccupazione, fede politica e fede religiosa, esperienze di guerra e vita nell’esercito, omosessualità, integrazione razziale, violenza sessuale. Vado avanti? Vado avanti. Questione degli affitti, cambiamento climatico, terrorismo, relazioni famigliari, sesso. In una complessità così fittamente organizzata sulla pagina, dove e come si snodano le vicende dei protagonisti?
E qua viene la parte migliore, a mio parere. Perché riguarda meno i temi e più la scrittura. Le vicende dei protagonisti si snodano sulla pagina seguendo un flusso del tempo piuttosto coinvolgente: accantonando una linearità che di certo non avrebbe saputo tradurre l’intricata realtà dell’America (di provincia) di oggi, Markley fa in modo che i piani del tempo si affastellino senza strappi in ricordi, flashback, rivelazioni, dialoghi tra vecchi compagni di scuola, visioni, confessioni e incontri molto avvincenti. A tenerci incollati alle pagine di Ohio è proprio questo, allora: una fotografia di sei adolescenti (tre coppie) agghindati per il ballo della scuola di cui pian piano cominciano a sparire i contorni, a disfarsi gli angoli, ad affievolirsi inesorabilmente i colori. Il proprietario la tiene piegata nel portafoglio dal giorno in cui quel ballo si è consumato. E da quel giorno è davvero passato troppo tempo, troppa vita e troppa morte.

Un’ultima critica, infine: per coinvolgere dei lettori non c’è niente di più malinconicamente vincente di una riunione di vecchi compagni di scuola. Ancor più se c’è un mistero da risolvere. Se possiamo perdonare a Markley questa faciloneria (passatemi il termine) perché la sa trattare davvero bene, meno perdonabile è a mio parere un certo distacco emotivo di fondo: l’autore ha imparato a scrivere all’Iowa Writers' Workshop, la più importante scuola di scrittura creativa d’America. E purtroppo a volte lo si percepisce: c’è meno strada e più maniera, meno vita e più teoria, meno capolavoro e più compito in classe.
Chiudo con il più singolare degli elogi, tuttavia: sono felice di aver letto il primo romanzo di questo autore perché sono certa che il secondo sarà bellissimo. Come in effetti era successo al suo precedessore Jonathan Franzen. Intanto, grazie alle opere - tutte le opere, anche quelle imperfette - di entrambi conosco molto meglio di prima il mondo-America. E questo è un merito che nessuno dei loro difetti potrà appannare.
Buona lettura!
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Ohio è pubblicato da Einaudi nella traduzione di Cristiana Mennella. L'edizione americana è uscita nel 2018, mentre quella italiana a maggio 2020. La fotografia della copertina di entrambe le edizioni (molto bella ed eloquente) è di Harlan Erskine.
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