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Attraversare l’America in treno

La newsletter #SognaAmericano, a cui molti di voi sono iscritti, è uno dei progetti su cui sto investendo molto ultimamente. È un appuntamento mensile intimo e potente, in cui mi sento libera e allo stesso tempo utile. Ecco perché ogni tanto ripropongo sul blog le lettere che ritengo più significative dal punto di vista della mia piccola grande missione. Andare là dove ho viaggiato, nei paesini remoti che ho scoperto, nei motel e nei diner dove mi sono fermata, nei luoghi dei libri che ho letto da sola o ad alta voce, luoghi in cui magari non riesci ad arrivare da solo: andare là dove l’America si svela più problematica e affascinante. Anche grazie, ovviamente, alla voce di chi lì ha vissuto.

In questi giorni sono aperte le iscrizioni al tour Rollin’ California, il tour nel tour, quello che ci permette di visitare San Francisco e la spettacolare costa di Big Sur, ma soprattutto di attraversare l’America in treno.

Puoi iscriverti gratuitamente qui. Grazie!

Lo fanno in pochissimi. E ognuno di quei pochi ha una storia da raccontare. Americani, turisti e personale di turno, chiunque si trovi a bordo di un treno Amtrak ha qualcosa che lo rende diverso. Diverso da chi? Diverso dalla massa che prende l’aereo, ovviamente, che prende l’aereo perché il treno è troppo scomodo, lento, sporco, mal frequentato, strano.

In uno dei paesi più grandi del mondo, non solo il tempo è denaro. Anche lo spazio lo è. Chi decide volontariamente di perdere il proprio tempo per attraversare uno spazio enorme è chiaro che non ha a cuore il denaro. Forse è un pazzo, un alcolista, un fifone degli aerei; forse è un immigrato senza documenti o un’adolescente incinta che scappa di casa; forse è qualcuno che scrive una storia, invece, o che vuole sentirne narrare una; forse è un esteta, un fotografo, un giardiniere che prende esempio dalle infinite forme della natura che scorrono fuori dal finestrino per cercare un giorno di riprodurne in piccolo qualcuna.

Sì, perché se c’è un buon motivo, un solo motivo, per salire su un treno Amtrak quello è il finestrino. Anzi, quel motivo è la carrozza lounge: tavoli e poltrone rivolte verso l’esterno, vetrate dal pavimento al soffitto, un bar al piano di sotto, il cielo senza confine sopra la linea di un orizzonte lontanissimo e decine di persone che portano scritta la loro storia negli occhi, pronti a rubare la tua attenzione all’America là fuori al primo accenno di conversazione.

Nel mese di ottobre ho viaggiato a bordo del California Zephyr due volte, entrambe in compagnia dei Book Riders: la prima volta verso ovest, da Chicago a San Francisco; la seconda volta al contrario, verso est, da San Francisco a Chicago. Inseguivamo i sogni di Jack Kerouac, lo scrittore americano che più di tutti conosce la strada e che più o meno 60 anni fa prese quello stesso treno – un treno che ha il nome di un vento, non è già romantico? – due volte, per andare e tornare da Big Sur in California. Andò in preda alla disperazione, tornò consolato.

7 stati: Illinois, Iowa, Nebraska, Colorado, Utah, Nevada e California. 2 fusi orari. 54 ore (a cui se ne aggiungono sempre un paio di ritardo). 3 pasti al giorno. 10 vagoni. 1 cocktail del viaggio. 2 letti strettissimi per cuccetta. Un numero indefinito di conductors (circolano per carrozze, chiacchierano con i passeggeri e non capisci mai chi sta conducendo il treno nel frattempo), un numero approssimativo ma certo di situations che possono interrompere o rallentare la corsa (un arresto, un incidente, un’espulsione di qualcuno nel bel mezzo del nulla), un altoparlante che cadenza il tempo con gli annunci delle fermate e la descrizione di cosa passa fuori dal finestrino.

E cosa passa fuori dal finestrino? Passa l’America dei racconti più selvaggi e remoti, passa l’intero sogno dell’andare, dell’essere in movimento dentro un mondo gigante e inafferrabile, dell’inseguire una natura maestosa e indomita, del misurare la tua solitudine umana con quella di Dio. Passano le scintille che accendono il cuore dei vagabondi, l’ispirazione degli scrittori, la sete dei fotografi. Passa quella pace che chi sta fermo non proverà mai, passa quella frase mitica – che disse Steinbeck per primo, uno che sì, sapeva viaggiare – secondo cui non sei tu che fai il viaggio ma è il viaggio che fa te.

Passa un lago dove si rifugiarono antichi pionieri e diventarono cannibali; un gruppo di cavalli selvaggi; il foliage; le mandrie; il deserto – tantissimi tipi diversi di deserto – rosso, giallo, grigio, castano; passano 27 tunnel che servono a scalare le stupefacenti Rocky Mountains; passano le capitali del disagio, Reno in Nevada e Sacramento in California (ma solo perché Omaha in Nebraska l’abbiamo passata di notte); passano il Colorado River e il Mississippi; poi i campi di grano e i silos e i tir enormi che si specchiano nelle pozze di pioggia; passano le dighe e le distese urbane che sembrano d’acqua; passano le stazioni, grandi e piccole e ultime; passano i giorni.

Passa la notte, il momento più difficile del viaggio: non solo perché il finestrino si spegne nel buio ma anche perché lo spazio angusto del tuo letto contrasta troppo fortemente con l’immensità che cerchi di intravedere fuori, in quel che resta del chiaro di luna o della luce di un raro lampione.

Mentre tutto questo passa fuori dal finestrino, noi dentro i nostri vagoni leggiamo insieme Kerouac e Steinbeck, discutiamo degli Hell’s Angels e di Allen Ginsberg, guardiamo un documentario su Fernanda Pivano. È tutto emozionante e intenso, quel rumore delle rotaie sotto di noi e il racconto dei grandi scrittori che si scioglie in quello ancora più enorme di nome America là fuori.

Il dettaglio più memorabile di questo viaggio, tuttavia, lo conservo come una scintilla solitaria: passati i giorni, passate le notti, passate le letture, una mattina ho aperto gli occhi e le tende, e fuori un’alba modesta iniziava a scaldare i profili dello Utah. Sono rimasta distesa nel mio piccolo letto, ho lasciato le tende della cuccetta spalancate e ho guardato quel cielo ancora vacuo: “Mi sto svegliando su un treno gigante sotto il cielo dello Utah, in mezzo al niente”, ho pensato, “se c’è una differenza tra la mia solitudine umana e quella di Dio io in questo momento credo di averla dimenticata.”

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Sono state scritte tantissime storie sui treni dell’Amtrak, io ne avevo già scritta una qui e ora sto addirittura pensando di creare un corso dei miei che ne includa altre d’autore. Mentre ci penso e ne raccolgo un po’, ti lascio qui tre storie che non sono scritte, bensì cantate o fotografate o registrate. 

  1. California Zephyr: per me questa è la canzone con cui inizia qualsiasi storia riguardi Jack Kerouac e il suo viaggio in treno verso Big Sur. L’hanno composta Jay Farrar e Benjamin Gibbard ispirandosi proprio al libro Big Sur, ma io l’ho conosciuta grazie a Thomas Guiducci e alla sua idea di realizzare insieme uno spettacolo su quella avventura struggente e demoniaca di Jack sulla costa californiana. Lo spettacolo l’abbiamo fatto tante volte, ogni volta inizia con queste note. Speriamo di risentirle presto per qualche altra data!

  2. Secret Lives of Amtrak Passengers: te l’ho detto che tutti i passeggeri di questo treno hanno qualcosa da raccontare! In realtà questo è più un servizio fotografico che un reportage, però rende bene l’idea.

  3. Prossima stazione America:  questo, invece, è proprio un diario di viaggio in cui sono i viaggiatori a parlare e a raccontare perché si trovano sul treno. Occhio a cosa passa fuori dal finestrino. 

E infine qui trovi tutte le info per il tour nella Rollin’ California (treno incluso!) dal 16 al 26 agosto 2019. Vieni?

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