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Immagine del redattoreLa McMusa

Come As You Are

Stamattina Kurt Cobain mi ha lanciato dal cielo un segnale diretto e chiaro: aveva la forma di una grande cacca di piccione marroncina, atterrata pesantemente sul mio agile ginocchio per l’occasione foderato di uno dei miei pantaloni migliori. Stamattina ero molto elegantemente vestita, ero in bici, andavo a lavoro e mi ero svegliata ascoltando In Bloom, la mia favorita dei Nirvana dopo Lithium.

Il messaggio era chiaro: lascia stare quel vecchione di Bruce Springsteen e pensa a me. Io stamattina ero molto contenta, poi a un certo punto non più.


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A Seattle c’è un museo che si chiama Experience Music Project (EMP) ed è dedicato al rock. C’è un’enorme scultura – alta più o meno 10 metri – fatta solo di chitarre attorno alla quale si arrotolano diverse sale-dedica: a Jimi Hendrix (originario di Seattle), al giubbotto di pelle nera (simbolo del rock da Bruce Springsteen a Marlon Brando a Elvis), alla storia della chitarra (ovviamente), alla musica del popolo (in questa sala ci sono un sacco di strumenti diversi che il pubblico può liberamente suonare) e – quella più grande e bella di tutte – ai Nirvana.


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Il progetto architettonico è di Frank O. Gehry. La chitarra, simbolo del rock, è la musa ispiratrice.


C’è una deriva pop, fatta di sale nuove dedicate alla science fiction, al fantasy e alla pop culture. Sono molto divertenti. Tuttavia, all’EMP di Seattle la parte grandiosa, quella per cui tutti vanno, è il museo dei Nirvana. Un’apoteosi – seria, accurata, veritiera e interattiva – dello spirito grunge che ha tirato su tanti di noi. Che non so se ci ha cresciuti.


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Li riconoscete? Maglietta e maglione li abbiamo visti mille volte in tv. C’è uno degli MTV Video Music Awards che i Nirvana vinsero per Nevermind, di cui c’è anche la copertina dell’LP.


Più facilmente, ci ha segnati.


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Cose degli inizi, quando Kurt Cobain si trovava con gli altri a fare le prove e avevano 15 anni, una prima demo da registrare e una valigia rosa come tavolo e guardaroba.


Avevo previsto di stare al museo due, tre ore.


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Foto dei Nirvana in tour – 1.



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Foto dei Nirvana in tour – 2, qualche anno dopo.


Alla fine sono stata tutto il giorno.


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Kurt Cobain canta Lithium.


E lì dentro ho pianto, costantemente, in silenzio, per un tempo che mi sembra – ancora adesso – infinito.

Kurt Cobain, insieme a David Foster Wallace, è stato il grande compagno del mio viaggio on the road negli Stati Uniti. Questo tossico e strepitoso triangolo genio-sensibilità-suicidio mi è entrato in vena fino a stordirmi per giorni interi, passato presente e futuro che si fondevano in incontri postumi e spazi che erano loro e poi, un bel giorno, anche miei. Sono stata vittima di reazioni inedite e inaspettate, che non ho capito bene se erano buone o cattive. C’era una domanda, in particolare, che faceva da altoparlante al mio cuore impanicato mentre gironzolavo per l’EPM, ed era una domanda di un egoismo veramente ipnotico. No, veramente non era una domanda, era un rimprovero. Ed era assassino.

La distanza tra noi e loro era già evidente quando erano vivi. Però, loro, a differenza di noi, avevano anche una responsabilità. Come Teseo, Ettore e Icaro. Erano il nostro contatto col divino. Erano il rischio che noi tutti saremmo disposti a correre per dimostrare – sempre e solo a noi stessi – che dio non esiste se non nella forma umana. Che la completezza è possibile, anche a caro prezzo – le droghe, gli psicofarmaci, l’isolamento – chi se ne frega.

Io sono venuta su ascoltando un ragazzo che per me era dio. Che ha modificato il mio carattere, forse anche la faccia, le mani.. mi ha fatto quella che sono oggi, insieme a pochi e selezionati altri. Oggi, dopo quasi vent’anni che dio è morto, io mi ritrovo a guardare la maglietta a strisce del video di Smells Like Teen Spirit in lacrime, privata dall’emozione del senso critico che di solito mi contraddistingue, sola e forse un pochino patetica. Io mi ritrovo a Seattle, c’è uno strano gioco di specchi, mi chiedo cosa sarei io se lui ci fosse ancora o se non ci fosse mai stato, subisco una specie di trasposizione metafisica nel mondo dell’impossibile da cui esco a fatica e incazzata nera. Guardo quella maglietta del cavolo e gli dico: “La prossima volta, per favore, non iniziare neanche, stronzo.”


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Con qualche giorno di ritardo, e probabilmente a ragione, lui da lassù se la prende copiosamente con i miei pantaloni.

Dio – per fortuna – non muore mai del tutto.

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