Come si fa un festival per non far morire un festival
Qualche tempo fa, di ritorno dal tour dei Book Riders nella Californoir, scrissi un post sulle librerie intitolato Come si fa una libreria per non far morire una libreria. Era un desiderio, più che un post. Ne avevo viste di bellissime a Los Angeles ed ero rimasta molto colpita dal modo in cui presentavano i libri al pubblico. Dal modo in cui offrivano ai lettori il loro piatto preferito. Un modo che, allargando il discorso dal particolare del libro al generale della cultura, mi aveva portato a fare riflessioni tipo:
“Se gli americani hanno un paio di cose da insegnarci riguardo alla cultura queste cose sono: 1) la capacità di rendere tutto (TUTTO) intrattenimento (che vuol dire piacere, vicinanza, pop, leggerezza, interazione, accessibilità e divertimento) e 2) la libertà di intendere la cultura e i suoi prodotti come qualcosa che deve essere usato (che vuol dire vissuto, interpretato, rovinato, scartato, stropicciato, ascoltato, giocato, reinventato).”
L’anno dopo, più o meno in corrispondenza dello stesso periodo, mi trovavo in Texas, ad Austin, a trasformare quelle riflessioni in una sorprendente certezza. A trasformare il desiderio di quel post in una tangibile realtà. Assistevo infatti al Texas Book Festival e, man mano che passavano i giorni gli incontri gli scrittori i giornalisti e gli editori, realizzavo che quello che avevo davanti agli occhi era, per me, una grande rivoluzione intellettuale. Pur senza esserlo davvero. Era, più correttamente, la rivoluzione intellettuale che io auspicavo per il mio mondo culturale, quello italiano.
Ma andiamo con ordine.
Il Texas Book Festival nasce nel 1996 per volere di Laura Bush, ex first lady, ex bibliotecaria e da sempre grande appassionata di letteratura. Madrina della manifestazione ancora oggi, la signora Bush da 21 anni fa sì che la capitale del suo stato, Austin appunto, “connects authors and readers through experiences that celebrate the culture of literacy, ideas, and imagination”. La sua vision è talmente semplice da essere quasi disarmante: “To inspire Texans of all ages to love reading”. Niente politica, niente sovrastrutture, niente impicci: la letteratura al servizio dei cittadini e la città al servizio della letteratura.
Ecco, la città.
La città d’America, Austin, che negli ultimi vent’anni – gli stessi del Texas Book Festival – ha saputo diventare, più di tante altre, una calamita per le arti (è la capitale nazionale della live music, si suona sempre e ovunque), per l’estrosità (ho visto hipster con il cappello e gli stivali da cowboy), per i democratici (pochissimi hanno votato per Trump e di certo nessuno lo venera), per i turisti che cercano un Texas diverso (e per chi, ormai, si vanta di averlo trovato.. compresa me), per la tradizione che incontra il futuro.
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Se nessun posto sembra essere migliore di Austin per ospitare una rivoluzione intellettuale come quella del TBF allora tanto vale accogliere tale rivoluzione direttamente nei luoghi del potere (e della religione). Tanto vale sovvertire un ordine e instaurarne un altro, più creativo e sperimentale; tanto vale consegnare simbolicamente la città a un nuovo sovrano, a un nuovo governo fatto di immaginazione. Tanto vale prendere possesso del Texas State Capitol, il campidoglio texano, uno degli edifici più imponenti e maestosi della nazione nonché una suggestiva isola di bianco marmoreo nel cielo infinito del Texas che in quei giorni diventa il fulcro di ogni storia.
Al suo interno: le aule del congresso, i ritratti dei senatori, il metal detector, i tabelloni con le votazioni delle leggi, le bandiere degli Stati Uniti, quelle del Texas, una cupola con la stella da far invidia a Roma e una marea di persone che hanno sete solo di storie e di finzione. Fuori, tre chiese di tre confessioni diverse in cui si alternano panels, firmacopie, presentazione di libri e dibattiti: in una ho visto Ethan Hawke, in una Don DeLillo, alla terza non sono arrivata perché il tempo andava troppo veloce e io invece no. Io invece mi chiedevo come facessero ad essere tutti così leggeri e informali in un contesto così prezioso.
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Sì, perché in fin dei conti è questa la vera rivoluzione a cui ho assistito: l’assoluta parità tra scrittore e lettore (incluso il maestro Don e una sua lettrice che gli ha dato del pazzo paranoico), l’abbondanza di mani alzate tra il pubblico e l’abbondanza di “grazie per avermi fatto questa domanda” tra i relatori, la semplicità delle domande che non devono ingaggiare una lotta interna a chi ce l’ha più lungo ma si manifestano semplicemente per quello che sono: curiosità e non dimostrazioni di sapere, interesse per le trame più che per le persone, interesse per la scrittura più che per le persone, rispetto per le persone in virtù delle loro trame e della loro scrittura, interesse per le storie soprattutto quelle giovani, vicinanza come intorno a un tavolo pieno di birre e di compagni di viaggio.
Non perché ci fosse una particolare atmosfera di amicizia (l’amicizia è tutt’altra cosa), ma perché si respirava un’incontrovertibile sensazione: anche la letteratura, anche la cultura dentro i luoghi maestosi della politica ha a che fare più con l’informalità che con il suo contrario, più con la piacevolezza dell’intrattenimento che con la distanza intellettuale. Più con il pop che con lo snob.

Non è mica così rivoluzionario, in fondo, no?
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