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I 3 peggiori motel in cui abbia mai dormito

È una delle mie esperienze americane preferite, il motel. La loro ripetitività più o meno pulita, la piscina nel mezzo, i balconi a ringhiera, il posto per la macchina davanti alla camera, la colazione con il waffle nella piastra girevole, le salviette struccanti dell’anno prima, l’odore di lindo e lurido insieme. E poi, ancora: la peggio gioventù nelle stanze a fianco, una televisione con il volume troppo alto, un pianto, una macchia rossa vicino al distributore del ghiaccio, le sigarette spente sul cornicione, un uomo dietro la tenda, la sua donna nel fast food oltre il parcheggio.


Se l’America è le sue strade, la notte americana non può che essere un hotel sulla strada: dormirci è come dormire dentro un racconto.


Non sempre, però, i racconti sono belli. Anzi. Il bello di vivere un’esperienza autentica è che non puoi chiedere all’autenticità di essere carina o di non essere brutta: prendi quello che viene e quello che viene, a volte, può essere estremo.


3. Trinity Suites Downtown, Dallas, Texas

Novembre 2017, notte di pausa tra due turni di Book Riders. Pioviggina e fa freddo, Dallas è grigia. Io e Claudio arriviamo stanchi: abbiamo in programma di riposare un po’ e poi fare riunione. Appoggiare un’oretta la testa sul cuscino prima di lavorare di nuovo. Magari non lì, però, magari in un locale in centro: lì non c’è hall, non c’è main room, non c’è nulla. Dallas è grigia, pioviggina e fa freddo. Parcheggiamo. Entro io, in un gabbiotto largo come un bagno, con una parete interamente di plexiglas dietro la quale, dopo qualche secondo, compare una signora di colore con i capelli grigi raccolti in una brutta coda. Il gabbiotto puzza di vecchio, non c’è neanche una macchina del caffè, un depliant, un contenitore per le chiavi. Non c’è niente. “Abbiamo una prenotazione”, mostro i documenti, glieli passo oltre la barriera trasparente, Claudio è ancora in macchina alle prese con qualche scartoffia. Aspetto e mi guardo intorno. Un foglio bianco appiccato sul plexiglas informa dell'orario di check out, del numero dei taxi e di varie altre cose che mi sembrano improbabili solleciti, forse scherzi. La signora mi dà una chiave, sorride e fa per andare via. "No", le dico, "abbiamo due stanze!" "Due stanze? Un uomo, una donna e due stanze?" Vedo una fantasia passarle per la testa. "Ehm sì, siamo colleghi." Una volta capito che eravamo finiti in un motel a ore, io e Claudio entriamo nelle rispettive stanze. Aspettandoci scarafaggi, preservativi usati e incontrovertibili macchie a cospargere il letto in ogni sua parte, quella corona di luci fosforescenti cangianti lungo il perimetro alto della stanza e quell'altra, più piccola, sul soffitto del bagno ci sembrano una cosa totalmente ilare. Totalmente ilare come la bambola che intravedo quando, la sera, torniamo dal centro, la indico a Claudio, sulla sedia del passeggero, nella macchina proprio di fronte alla sua stanza.

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"Ma quella è una bambola, cazzo?" E le risate questa volta sono isteriche.


2. Hill Country Inn, San Saba, Texas

Novembre 2017, i Book Riders sono finiti, resto con Elena a girare una parte del Texas che ancora non conosco, quella super super centrale, tra Dallas e Austin, dal lato occidentale. Le strade, qui, sono più identiche a se stesse che in altre parti del Texas, io guido, guido, guido sempre e mi sembra che questa striscia di nero che taglia le praterie di paglia non finisca davvero mai. Arriviamo a San Saba, il paese dove è nato Tommy Lee Jones e dove è nato anche il personaggio che lui interpreta in Non è un paese per vecchi. Con nostro grande sconcerto, scopriamo che San Saba è la capitale del mondo della noce pecan ma che è anche, inconsolabilmente, un paese per vecchi, anzi, è un paese per vecchissimi: il buio pesa come gli abissi del mare, le stelle non si vedono, altre auto non ce ne sono. E sono solo le sette di sera. I due lodge che intravediamo non hanno reception, si fa tutto per telefono e io odio il telefono. “Andiamo oltre”, dico a Elena, alla nostra destra c’è un parco di luminarie natalizie: esilarante sotto acido, inquietante oltre ogni confine da sobrie. Siamo sobrie. Oltre la collina, a sinistra, infine vediamo lui: classico motel in mattoni, un solo piano su strada, poche macchine davanti alle camere, la scritta al neon che dice VACANCY. Entra Elena, resta per qualche minuto, esce con una signora indiana (dell’India) al seguito, mi passano davanti ed Elena mi fa cenno: “Ci fa vedere la stanza!”

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La stanza è pervasa di incenso morto, la moquette dà chiari segni di putrescente vecchiaia, sul telefono c’è un dito di polvere, il telecomando manco lo guardo, le lenzuola sono macchiate. Eppure le macchie sono nere e non rosse, in bagno non ci sono scarafaggi, le tende non hanno buchi, l’acqua calda scorre e nella mia testa scorre anche il pensiero che se San Saba è un paese per vecchi allora il nostro motel non può esserlo. Il nostro motel deve essere Non è un paese per vecchi: io ed Elena ci guardiamo, il pensiero scorre da me a lei, piazziamo una valigia sulla macchia del pavimento e un’altra sulla poltrona, ci avviamo verso la porta e con cenno sicuro diciamo alla signora: “La prendiamo!” Dopo una manciata di minuti usciamo nella notte blu, Elena fa scorrere quel pensiero dalla sua testa al suo occhio alla sua macchina foto (queste due immagini sono sue) e quel racconto di McCarthy ce l’abbiamo proprio tutt’intorno.

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1. Red Roof Inn, Morgan City, Louisiana

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Non c’era alternativa. Non avevamo altra scelta. Morgan City è una città umida e mortifera che giace su una sponda del Mississippi e pare aspettare da tempo indefinito l’apocalisse. Sono arrivata qui con i Book Riders in una afosa giornata dello scorso autunno: non potevamo immaginarlo, ma di quella giornata e di quel motel ne avremmo parlato per sempre.  Tutto inizia al check in: sbrigativo, confusionario, stanco. C’è sempre questa costante nei motel americani, che gli altri ospiti li intravedi di rado e quando arrivi sembra sempre tutto deserto. Qui è ancora più deserto, qui è oscuro. Davanti alla hall c’è una bandiera americana e, di fianco, detriti, rifiuti, scarti di un vecchio mondo che sembra in procinto di tramontare senza che nessuno si prenda la briga di iniziarne uno nuovo. Abbiamo le chiavi delle camere, io e Isabella cerchiamo la nostra nel buio, quando la troviamo intravediamo anche una piscina recintata, là nell’angolo del parcheggio, svuotata – sembra – di persone e di acqua. “Ci avranno ucciso qualcuno dentro?” chiede lei, come per scherzo, una macchia incrostata proprio sull’uscio della porta, a farmi pensare che ogni tanto la differenza tra una battuta e una rivelazione pesa quei famosi 21 grammi. Dentro è estremo: lenzuola, coperte e tende bucate e bruciacchiate in più punti, a terra e sui muri tracce di antiche botte, sul piano del bagno moscerini. Io non faccio una piega, Isa è esaltata: ma questo motel è proprio come quelli dei film! Usciamo, e un film succede anche a noi: un film di nonsense e colori, di pavimenti a scacchiere e interrogatori della polizia, di bicchieri di whisky e sigarette della buonanotte. Un film che non racconterò qui, ma che noi ci raccontiamo ancora di tanto in tanto, quando vogliamo ridere, quando vogliamo ricordarci i momenti più indimenticabili di quel lontano viaggio in Louisiana. Un film che ha avuto persino il suo grido nella notte e la sua telefonata di emergenza: erano Ilaria ed Elena che avevano trovato uno scarafaggio gigante in camera e cercavano un uomo in grado di ucciderlo.

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Se questo pezzo sui motel che sono racconti ti è piaciuto, sul mio Instagram da oggi trovi una serie di foto che fanno proprio questo: abbinano a un motel incontrato sulla strada una storia ambientata lì.. o quasi.

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