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Il sabato del Midwest

Il Midwest è quella parte di territorio americano che si estende subito a ovest della East Coast, molto a est della West Coast e piuttosto a nord rispetto agli stati del sud. 12 dei 50 stati americani ne fanno parte e, per usare una categoria che sappiamo riconoscere, questi 12 stati grossi più o meno come l’Europa intera costituiscono l’entroterra più autentico degli Stati Uniti. La sua tempra e la sua scorza. Il Midwest è conservatore, enorme e agricolo, e si definisce per contrasto rispetto alle due coste liberali, meticce e – come spesso mi è stato detto dagli autoctoni – europeiste. Il Midwest è l’America che noi europei non vogliamo imitare, quella lontana dalla nostra idea di “american dream”, ma quella che più di ogni altra la ritrae nella sua media normalità. O quella che noi europei non possiamo che percepire come paranormale mediocrità.

Tanto è vasto lo spazio geografico che sta sotto il nome Midwest, tanto è limitato lo spazio mentale che abita l’immaginazione, la cultura e la sensibilità dei suoi abitanti.

L’Illinois è uno degli stati del paranormale Midwest, uno dei bastioni della sua cultura radicale cristiana, repubblicana (Chicago, la capitale economica e turistica dello stato, e Obama sono eccezioni di cui parlare con visibili smorfie di disappunto stampate in faccia e occhi fuori dalle orbite) e basata sulle risorse della terra, grano, soia e petrolio su tutte.


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Questa è una delle foto del fotografo americano Larry Kanfer (www.kanfer.com), specializzato in ritratti del Midwest.


L’Illinois che i midwesterns chiamano heartland (il cuore del paese) è un esempio perfetto di claustrofobia. Così piatto che i tuoi occhi non riconoscono l’orizzonte. Vuoto, finché il tuo sguardo, che corre a bordo di un truck su quelle strade lunghe lunghe, dritte dritte e spoglie spoglie, non inciampa in tre o quattro silos sperduti nel bel mezzo del niente. O in una M gialla arrotondata, lontana quanto l’orizzonte e alta quanto un grattacielo. Così senza via d’uscita che anche i pensieri più infantili e leggeri non riescono a spiccare il volo perché non sanno dove andare.

Tra un paese e l’altro c’è minimo un’ora di auto. Un’ora in cui ai due lati della strada ci sono solo campi di grano. D’inverno, campi di grigio. I paesini sono radi (..quella famosa espressione inglese che finché non ci vai non la sai: spread out) e inespressivi: il centro non esiste, è un fantasma urbano; le strade sono deserte e nessuno cammina, neanche per fare cinque metri. C’è solo una cosa che accade: si incrociano vie che formano quadrati che formano villette che hanno il vialetto che hanno il garage che hanno tre macchine che formano una famiglia che ora i figli sono lontani – alcuni in guerra – che è solo papà e mamma sopra i sessanta che viaggiano tanto ma non sanno niente.

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Ogni tanto c’è un laghetto artificiale costruito per mitigare l’aria e raccogliere l’acqua. C’è il dondolo, sulla sinistra. Serve per aspettare la primavera.


C’è un paesino, nell’Illinois centrale, che si chiama Danville. Poco più di 30 mila abitanti, nessuna università, una fabbrica della General Motors che ha chiuso 20 anni fa e ha mandato in rovina lo sviluppo dell’intera comunità. Qui c’è del disagio, ma – come si viene a sapere man mano che il viaggio procede – non più che in altri paesini più agiati. Il disagio primario è, as a matter of fact, interiore.

Oggi è sabato, mi alzo alle 8 invece che alle 6 come in settimana, mi metto i vestiti del giorno prima ma faccio il bucato. Mi lavo e mi profumo, salgo in macchina e mi fermo al primo Casey’s che trovo sulla strada a prendere dei cinnamon rolls e un bicchierone di caffè. Mangio in macchina e, durante il tragitto che in 20, no forse 30, minuti mi porta dai miei amici, ascolto musica country contemporanea. Quando gli altri salgono in macchina non abbasso il volume né parlo.


La prima fermata di questo giorno di festa è la degustazione di vini in uno dei rarissimi vigneti dello stato, la Sleepy Creek Vineyards. Sono le 10.30 del mattino, i vini sono piuttosto scadenti ma sono sempre vini e berli ci piace.

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Il posto è carino, in the middle of nowhere, fuori non c’è niente, le viti sono bruciate dal gelo e dal vento, c’è una perplessità generale su quando e come l’uva riuscirà a crescervi sopra.


Si fanno le 12, il noon, e si va a pranzo. All’angolo di un incrocio qualsiasi c’è un edificio basso e brutto, uguale a tutti quegli altri che si intravedono in lontananza: è un diner da cowboy, un’enorme riserva per uomini grossi con i baffi e la camicia a quadri che divorano hamburger seduti al bancone

e azzannano golosissime blossom onion, le specialità della contea: prendi una cipolla grossa come un melone, la attraversi con uno strumento fatto apposta che la taglia a fettine come enormi petali di un enorme fiore, la immergi nel burro sciolto e caldo, poi nella friggitrice ricolma di olio e poi la servi insieme a una salsa agrodolce dalla provenienza sconosciuta e probabilmente chimica.

Il godimento e la dipendenza che procurano sono direttamente proporzionali

alle unità di grasso inscioglibile e irreversibile che si ingurgitano petalo dopo petalo. Qualcuno si alza dal tavolo intontito e improvvisamente ingigantito, in preda a ingestibili rimorsi salutisti; quelli che non vogliono fare la stessa fine si cucinano una bistecca grossa come la coda di un pianoforte direttamente sulla griglia comune.

Il pranzo porta via due ore. Qualche fortunato va via senza salutare e dorme un altro paio d’ore, per permettere ai grassi ingurgitati di trasformarsi pigramente in adipe; i meno fortunati continuano la celebrazione del grande sabato del Midwest con una visita al teatro decrepito del paese, il Fischer Theatre, che nella hall ospita un museo: una specie di sfilata kitsch e inutile di tutti i cimeli insignificanti o delle riproduzioni svuotate di senso dei 5 personaggi famosi che sono nati in questo paesino dimenticato da dio. Noi europei ne conosciamo solo due: Dick Van Dyke e Gene Hackman. La nostra guida è un autore locale, che ha scritto sia opere teatrali sia romanzi gialli: ha la faccia tonda, le labbra sottili, gli occhi allampanati, i capelli fini lunghi e il cappellino all’indietro. Una volta dentro le file scalcinate della platea deserta, la guida è un tutt’uno con il palco che cade a pezzi di un teatro vuoto da anni, in attesa di fondi che la comunità non darà mai perché troppo povera.

La sera sul Midwest scende presto e verso le 16 è ora di andare nella riserva di caccia di Doc: in programma c’è un giro sul fourwheeler attraverso la sua tenuta (grossa più o meno quanto lo Stato del Vaticano), il barbecue e il fuoco notturno su cui far fondere i marshmallows con i bambini. Doc è la persona più

adorabile che il Midwest abbia partorito da tempo, ma come hobby lui ha la caccia e come hobby dell’hobby la conservazione della parte dei suoi trofei che non finisce sul barbecue. Nella foresta attorno alla tenuta ci sono delle postazioni di legno molto alte, presumibilmente costruite a mano, su cui lui e i suoi amici passano intere ore, anche d’inverno, in attesa di uccidere un uccello. C’è una fonte fangosa che passa per acqua pura e potabile, un campo di addestramento per tiratori e un fiume marrone e senza alcuna corrente che segna il confine sud della sua proprietà. Il fourwheeler ha i sedili posteriori a forma di mitra e la carrozzeria di plastica militarizzata.

Prima di cena Doc, con il suo sorriso da gentiluomo e i suoi modi da caro zio cowboy, ci insegna a tirare con l’arco. Durante la cena ci racconta alcune delle sue avventure di caccia e sulle sue parole svolazza via qualsiasi considerazione ideologica contro la violenza verso gli animali. Dopo cena accende il fuoco e chiama a raccolta i bambini per distribuire i marshmallows. Quando ci si guarda intorno dopo la grande abbuffata di zuccheri filanti, Doc è misteriosamente sparito.


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A Danville la radio prende almeno cinque radio country. Mentre rientro perché il fuoco si è fatto basso e il caldo non basta più a coprirmi, in una di queste radio sta passando un pezzo che mi piace. Mi siedo su una sedia a dondolo, prendo un gatto nero tutto peloso in braccio, do un occhio a quel povero cervo mozzato che mi guarda da là sopra e, mentre il gatto inizia a fare le fusa, mi ciondolo fino a perdere coscienza del tempo in cui sono.


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