Qualche giorno fa mi è capitato di rileggere il discorso che lo scrittore George Saunders pronunciò agli studenti della Syracuse University nella primavera del 2013. L’ho riletto sotto forma di parole sul blog del New York Times, The 6th Floor, e l’ho rivisto sotto forma di animazione in questo bellissimo video a cura dell’illustratore Tim Bierbaum.
Il discorso di Saunders (che è reperibile anche in italiano in un volumetto pubblicato recentemente da minimum fax) ruota attorno a un ricordo lontano e a una frase pregnante: il ricordo è quello di Ellen, una sua compagna di scuola che tutti trattavano male ed era talmente timida che quando andava in paranoia si ciucciava una ciocca di capelli; la frase, invece, è:
What I regret most in my life are failures of kindness.
Quello di cui mi rammarico di più nella mia vita è la carenza di gentilezza. No, non è vero, non al singolare. Al plurale. Le carenze, le mancanze, i ripetuti fallimenti della possibilità di essere gentili verso qualcuno e tendergli la mano per aiutarlo a guadare la timidezza, la paranoia, l’insicurezza. Tutti sanno che i capelli in bocca sono come paglia che scivola rugosa verso la gola e a nessuno piace il retrogusto che un nodo di paglia in gola lascia sulla lingua. Solo che, dice Saunders, essere gentili costa fatica, it is hard, e implica il superamento di alcune convinzioni che noi proviamo a livello viscerale: essere più importanti degli altri, ignorare i sentimenti che provano gli altri, non sapere neanche chi sono questi altri. In altre parole, siamo troppo egoisti, egocentrati e pigri.
Come balsamo rinfrescante su una superficie raggranellata di cemento bollente, questo discorso ha fatto presto il giro del mondo e ha – evidentemente – colmato un vuoto di umanità che non provavano solo gli studenti neodiplomati della Syracuse, ma un po’ tutti i nostri io-bambino. Che bello sarebbe andare in giro e non essere spaventati dall’aggressività degli altri ma, al contrario, essere accolti dalla loro gentilezza.
Un sogno.
Passa qualche giorno e io mi imbatto in un altro discorso universitario, questa volta pronunciato da Kurt Vonnegut nel lontano 1999 di fronte agli studenti dell’Agnes Scott College di Decatur, Georgia. Mi ci imbatto perché recentemente, negli Stati Uniti, è stato dato alle stampe un volume che raccoglie i più bei discorsi dello scrittore americano recitati di fronte a delle platee universitarie. Nel caso vi fosse sfuggito, infatti, in America l’usanza di chiamare una personalità, una mente illuminata per celebrare diplomi e lauree è molto radicata ed estremamente diffusa (qui la lista dei 10 migliori commencement speeches secondo il “Time”): una nuova compagine di giovani intelletti ha terminato la propria formazione, per inaugurare il loro cammino nell’adultità e lanciarli lontano quale miglior francobollo emotivo se non la saggezza di un grande concentrata in pochi minuti e per di più live?
Sarebbe piaciuto molto anche a me. Che qualcuno mi avesse stimolato a pensare che nel mondo adulto io e i miei compagni, appena laureati, avremmo potuto fare la differenza.
Anyway.
Il volume che raccoglie la saggezza discorsiva di Vonnegut ha come titolo If This Isn’t Nice, What Is? e come sottotitolo Advice to the Young. Il discorso del 1999, quello che mi ha colpito di più, ruota anch’esso come quello di Saunders intorno all’idea di umanità, di prossimità tra esseri umani, di manifestazione concreta di tale prossimità. In uno stile che fa suo l’ironia, il linguaggio e le metafore bibliche, gli Hell’s Angels, quella grande categoria sovraculturale e postmoderna chiamata Era della Tv e altri luoghi più o meno comuni, a un certo punto Vonnegut invita gli studenti a pensare al professore che in quegli anni li aveva fatti sentire più vivi, più orgogliosi di essere vivi, più excited to be alive. Fatto? Ora giratevi verso il vostro vicino e ditegli all’orecchio il nome di quel professore e che cosa di speciale ha fatto per voi.
E il discorso finisce qui. Con tutte le teste che si girano e un mormorio crescente che immaginiamo fitto fitto e pieno di buona energia mentre Vonnegut dice:
If this isn’t nice, what is?
Ora, nice e kind, le due parole poste da Saunders e Vonnegut all’attenzione dei giovani, sono due aggettivi nonché due concetti che molto spesso mi sono trovata a usare anche io definendo gli Americani incontrati sul mio cammino. Due concetti positivi e tuttavia un po’ ambigui, un po’ poco netti.
Perché tutto questo bisogno di gentilezza e buone maniere in America? Perché due inviti così delicati e gradevoli invece di un più stridente: “Prendetevi le vostre responsabilità” o “Siate onesti” o, ancora, “Prima di tutto la conoscenza del prossimo”? Inviti netti, secchi, schierati, simili più al monito che alla retorica.
Mi sono fatta queste domande perché subito dopo aver interiorizzato i discorsi dei due grandi scrittori mi sono ricordata, automaticamente, di un episodio. Un episodio che avevo registrato sulle notes del mio iPhone e battezzato: Finché soldo non ci separi. Ci sono io seduta a capotavola, a destra lui, a sinistra lei. Coppia verso i sessantacinque, casa enorme rasente un campo da golf, cane sostitutivo dei figli lontani, soldi a palate, bandiera americana issata davanti a casa, due Porsche in garage, non so quanti piani e forme di comfort sparse ovunque. Tv enorme accesa sui campionati mondiali di golf. Mazze da golf cromate come correlativo oggettivo di tutto quanto.
Stiamo cenando e siamo nel Midwest. Più precisamente a Lincoln, Illinois.
Di punto in bianco, dalla noia senza fondo della partita di golf emerge una domanda: “Cosa pensate in Europa del nostro presidente Obama?” Quando realizzo che la domanda arriva dalla mia sinistra e non dalla noia della tv, dentro di me accadono due cose: 1) rabbrividisco e 2) mi dico “Ok, Marta, affronta la cosa con calma”.
Stavo entrando in un terreno minato: coppia molto benestante, molto cattolica e molto repubblicana.
Boom.
In un crescendo proporzionale di intolleranza e gentilezza, le nostre parole sono passate brevemente dal calmo scambio di informazioni alla guerra dei falsi sorrisi, sono diventate bombe nemiche su un campo di fiori, proiettili di gelo in mezzo agli uccellini che cinguettano: le peggio discriminazioni razziali, sessuali e religiose mi sono state comunicate con estrema delicatezza, l’insostenibile pensiero che un altro paese – magari l’Italia – potesse diventare tanto potente quanto gli Stati Uniti è stato spruzzato in aria come una fragranza di lavanda nel venticello di primavera, la negazione del principio inalienabile dell’uguaglianza degli essere umani è stata proclamata come il più romantico dei ti amo: “Io non voglio che tutti gli uomini siano uguali né che tutti abbiano le stesse opportunità. I poveri vogliono solo i soldi di mio marito.”
“Vuoi ancora caffè, Marta cara?”
Più cresceva la violenza concettuale, più aumentava la carineria verbale.
Finché a un certo punto io devo aver esagerato – ricordo di aver detto che in quanto a culto della personalità Obama era certo inferiore a George W. Bush – e loro hanno finalmente sciolto le loro riserve di zucchero, si sono guardati e si sono detti ignorandomi: “Poor girl, da dove cominciamo a farla ragionare?”
Al che io mi sono – gentilmente – congedata da tavola.
Ora, è chiaro che né Saunders né Vonnegut c’entrano nulla con questo proclama di estrema intolleranza né in alcun modo lo alimentano. Però mi chiedo: e se i figli di quella coppia fossero stati nella platea di una delle due università citate e avessero sentito parlare di kindness due scrittori di cui probabilmente non avevano letto nulla, non avrebbero forse avuto come riferimento immediato e inconscio i modi così gentili e premurosi delle loro madre? La buona condotta tutta lavoro, chiesa e famiglia del loro padre?
Insomma: non è la gentilezza, spesso, più una questione di forma che di sostanza? E – alla base di tutto – la gentilezza basta, di per sé, a bucare la superficie del pregiudizio ed entrare in profondità là dove siamo più spietati? Là dove, come dice proprio Vonnegut all’inizio del suo discorso, rispondiamo alla realtà secondo il primitivo codice di Hammurabi: occhio per occhio, dente per dente?
In fondo, anche questo può essere nice, no?
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