Nell’universo unico di rimandi e incroci che diventa la nostra immaginazione quando nutrita, per un lungo periodo di tempo, esclusivamente di racconti, a volte capita che alcuni personaggi si incontrino e che, senza saperlo, si completino.
Non sono una grande fan delle citazioni, ma lo sono della primavera; non sono un’inguaribile romantica, ma divento romantica quando scopro inaspettati rimandi letterari che mi lasciano sospesa sulla pagina ad aspettare qualcosa – di più terreno e meno dolce – che me ne allontani.
Vi propongo la lettura di due primi baci, di due coppie di ragazzini e delle loro labbra, corpi, visi che si incontrano, della natura che aggiunge al loro abbraccio anche il suo, della poesia d’immagine di due scrittori delicati e netti come i colori che scelgono di mettere sulla pagina. Mentre li leggevo ho pensato: un bacio ha sempre a che fare con i capelli, i fiori, il vento e quegli istanti di irrefrenabile pieno che lo seguono. Se poi il bacio è il primo allora saremo fortunati quando incontreremo qualcuno che ne sappia raccontare anche la terribile innocenza e la definitiva rivoluzione.
Buona lettura.
Tennessee Williams, Il campo dei bambini azzurri, tratto dalla raccolta L’innocenza delle caramelle tradotta da Giuliana Beltrami Gadola e Nora Finzi.
La ragazza ripensò alla vista notturna dalla sua finestra, nelle notti in cui piangeva disperatamente senza sapere perché, alla cupola bianca che sembrava una cima nevosa, alle onde irrequiete delle fronde illuminate dalla luna, all’immoto silenzio e alle voci che cantavano, malinconicamente remote e poi vicine, alle tenere, sciocche ballate, al profumo della spirea bianca nella notte e alle stelle chiare come lampade nel cielo increspato di nuvole, e si ricordò dell’emozione che la soffocava e che non riusciva a capire e del terrore che tutto questo stava per arrivare alla sua improvvisa, finale conclusione entro pochi mesi o settimane. E strinse le braccia attorno alle spalle del ragazzo. Era quasi uno sconosciuto. Sapeva di non averlo neppure guardato bene fino a poco fa, eppure lo sentiva ora inesprimibilmente vicino, più vicino di quanto nessuno le fosse mai stato. Egli la condusse nel campo dove i fiori le salivano in onde celesti alle ginocchia e coi loro morbidi petali le accarezzavano la carne nuda; lì lei si buttò per terra e distese le braccia tra i fiori premendovi contro le labbra; se li sentiva tutt’attorno, che l’accoglievano e l’abbracciavano, e una specie di ubriachezza la sopraffece. Il ragazzo le si inginocchiò accanto e le passò le dita sulla guancia e poi sulle labbra e sui capelli. Stavano entrambi in ginocchio fra i fiori azzurri, uno di fronte all’altro. Lui sorrideva. Il vento gli soffiò in faccia i capelli sciolti di lei. Allora alzò le mani e le scostò i capelli dalla fronte e mentre così faceva le sue mani le scivolarono dietro la nuca e lì si allacciarono attirandole il capo finché la bocca della ragazza fu premuta contro quella di lui, più forte e ancora più forte fino a farle sentire il dolore del labbro schiacciato contro i denti e il gusto salato del sangue. Riprese fiato schiudendo la bocca e poi giacque fra i sussurranti fiori azzurri.
Charles D’Ambrosio, Lirismo, tratto dalla raccolta Il suo vero nome tradotta da Martina Testa.
Il nastro che Joan aveva in testa era così strano, così insolito. Potter la prese in giro e Joan gli diede uno spintone e scappò via. Lui la rincorse e alla fine la buttò a terra, e rimasero stesi uno addosso all’altra su un letto di erba schiacciata, muti ma con un fiatone così forte che Potter se ne vergognò. Era strano sentir respirare una femmina. Per qualche istante non dissero niente. Potter si ricordava di aver ascoltato il rumore liquido del loro respiro e il sibilo del vento e il fruscio dell’erba come se fosse la risacca che si alzava e si abbassava nel campo, e di aver guardato uno stormo di anatre canadesi che passavano nel cielo sopra di loro. Era come stare sott’acqua, era tutto altrettanto lento e silenzioso. «Se non ti piace il mio nastro, me lo puoi togliere», disse Joan. Potter non rispose niente e lei si alzò in ginocchio, dandogli le spalle. Potter guardò il nastro nero legato in un fiocco. «Dai, avanti», disse Joan. Aveva i capelli pieni di fili di paglia. Potter tastò il fiocco. Il nastro era soffice e aveva la superficie lucida, come una specie di patina liscia, quando lo si accarezzava in un certo verso, ma se lo si strofinava dall’altra parte era rigido e ruvido. Mentre glielo slacciava, con la mano sfiorò i ciuffi sottili di capelli scuri e piumosi sulla sua nuca. I capelli le caddero sulle spalle. Lei scosse forte la testa per scrollarsi via i fili di paglia, poi si voltò verso Potter. «Mia madre mi ha detto che mi stava bene», disse. Potter aveva in mano il pezzo di velluto e ci stava passando il pollice avanti e indietro, per sentire prima la parte liscia, poi quella ruvida. Poi Joan si chinò in avanti e Potter la vide chiudere gli occhi, perciò li chiuse anche lui. Il bacio di Joan fu la cosa più calma del mondo. Potter non avrebbe mai più voluto aprire gli occhi, ma dopo un po’ lo fece, e vide Joan che lo guardava in faccia sorridendo. «Mi ha insegnato mia sorella allo specchio», gli disse. Potter non riuscì a rispondere nulla. Si protese solo un altro po’ verso di lei, e sentì il sapore di lavanda delle sue labbra e poi qualcos’altro, lo scivolare umido e rosa della lingua. Balzò in piedi e si mise a correre per il campo, sventolando il nastro di velluto nero come una bandiera nell’aria della sera.
Se siete andati troppo veloci, tornate indietro e rileggete. L’effetto finale di entrambe le immagini è letteratura.
Commenti