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Literary, San Francisco!

Non tutti si vive San Francisco allo stesso modo. La leggenda che la avvolge è più fitta della nebbia che immancabile tutti i giorni la inspuma. Vedo non vedo, sarà vero quel che vedo? Tutti, sia alla mia partenza che al mio ritorno, mi hanno chiesto di San Francisco, se mi era piaciuta, se ero eccitata all’idea di andarci, che impressioni ne avevo tratto. Se l’incontro con la leggenda era stato all’altezza della leggenda stessa. “San Francisco figa, eh?!”

Bene, a me San Francisco non è piaciuta tanto. Anzi, ero così incazzata con il suo vento e il suo gelo che su Market Street sbuffavo sonoramente da sola, tutta imbronciata e incassata nella mia sciarpina estiva inutile, e imprecavo contro le implacabili forze della natura che forse si erano placate soltanto durante quella famosa estate dell’amore passata alla storia per il suo calore che però se ci pensi un attimo quello caldo tra i due era molto probabilmente l’amore e non la stagione; il saliscendi sì ok, bello il primo minuto, dopo quattro isolati sei a terra disfatto con la lingua che si incolla ai rimasugli di cibo cinese lasciato a marcire negli angoli delle strade; le casette colorate boh?; i tram una volta che sei stato a Lisbona ti fanno ridere; il Golden Gate Bridge è talmente stronzo e innamorato della nebbia che perdurerà negli anni a venire solo ed esclusivamente nella tua immaginazione.


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Sono forse un po’ troppo severa. E infatti mi correggo subito: probabilmente a San Francisco non ho fatto gli incontri giusti, se solo fossi stata con una compagnia diversa l’avrei vissuta più intensamente, sarei stata nei locali autentici, avrei visto cose pazzesche sul serio. E di certo tornerò presto, il richiamo – quello sì – resta leggendario.

E poi qualcosa che mi è piaciuto tanto c’è stato: la sua anima letteraria e i leoni marini, a cui è stato costruito una specie di grande hotel galleggiante sull’oceano, dove ruttano e litigano e fanno fermare i turisti per ore perché in fondo sono molto vanitosi e non la smettono di ancheggiare. Io con loro ho riso molto.


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L’anima creativa (prima che letteraria) della città, invece, è trascesa su di me in maniera meno rumorosa e verace, ma altrettanto “vanitosamente”. San Francisco sa il fatto suo: la Beat Generation è ovunque, alcolica, un po’ strafottente e dal nerbo altezzoso anche se invecchiata e ormai scalcinata come le case in cui si faceva l’amore durante l’estate dell’amore; i giovani artisti rigenerano quartieri già splendidi dove solo qualche decennio fa portavano a spasso il cane Patti Smith e Jimi Hendrix; il vintage è il più diffuso e imperante leitmotiv di locali, musicisti, mezzi di trasporto, librerie, negozi di abbigliamento, musei e menù. Mi chiedo se questo effetto vintage non sia dato semplicemente dall’europeità di San Francisco, la sua matrice da vecchio mondo che fa tre quarti del suo fascino, soprattutto tra gli americani autoctoni. Little Italy resta ancora oggi uno dei suoi quartieri più affascinanti e frequentati.

Venendo alla letteratura, però, qualcosa cambia e la polvere di vintage si autonebulizza. Fortemente influenzato dall’interesse personale e dai miei privati moti del cuore, l’itinerario letterario di San Francisco rimane uno dei più emozionanti che un luogo terrestre possa offrire e il primo che consiglierei a un mio simile. Il mio ha seguito tre tappe piuttosto classiche, ma, avendo a disposizione qualche giorno in più, non sarebbe certo un problema trovare nicchie, opere, scrittori, correnti fuori mainstream.

Quello che accomuna le tre tappe e che fa grande la maggior parte della letteratura americana, non solo quella che gira intorno a San Francisco, è un binomio: alla scrittura nel mondo della finzione si unisce (quasi) sempre l’intrattenimento o l’operosità commerciale nel mondo della realtà. Se c’è una cosa che gli americani sanno fare bene è intrattenere, inventare nuovi modi di fruizione dell’arte, farne commercio. Senza per questo abbassare la lancetta del tasso estetico o artistico. Come fanno?


Prima tappa: la guida. Prima di partire per gli Stati Uniti ho comprato un libro, Infinite City. A San Francisco Atlas di Rebecca Solnit. Ero venuta a conoscenza di questa chicca dal blog di Silvia Pareschi, una delle traduttrici italiane più in gamba che il mondo editoriale nazionale abbia a disposizione che vive e scrive proprio da San Francisco. L’ho ordinato su Amazon e l’ho infilato in valigia sin dall’Italia: unico e pesante esemplare cartaceo presente alla partenza (non certo al ritorno) di contro a una marea impalpabile di ebook comodi e leggeri ma mai neanche effettivamente aperti in lunghe settimane di viaggio. Poi alla fine io tanti dubbi su questo tema non ne ho. Comunque. Questo libro è molto interessante: racconta 22 volti di San Francisco e per ognuno di questi presenta una mappa. Colorata, strana, unica. I 22 volti si modellano su linee che trasversano tempi ed epoche storiche, contesti artistici e industriali, sensi e leggende. E tutti insieme, le mappe e i saggi/racconti, formano un incredibile e mai visto atlante della città.

C’è la San Francisco del cinema, quella “dei monarchi e delle regine”, la San Francisco del caffè, quella delle sottoculture, quella tossica e quella nera. Tra le altre. Questo libro, che va letto con calma e che non va usato come una guida nonostante lo sia, usciva dal mio zainetto soprattutto in metropolitana, quando dovevo decidere a che fermata scendere o cosa cercare in città. Passavo 23 minuti in metro, da casa mia al centro, tanto per darvi un tempo di lettura. Cercavo curiosità e ispirazioni, e nella scelta degli itinerari andavo molto a colore, le mappe prevalevano incommensurabilmente sui testi. Pensavo di avere con me un oggetto raro, e forse l’avevo davvero, però numerosi suoi gemelli sono presto spuntati un po’ dappertutto, non ultima la libreria dove tutti i turisti – intelligenti e non – vanno quando approdano a San Francisco.


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Seconda tappa: i maestri. In meno di 200 metri quadri di spazio, nei paraggi di un incrocio mortale che ha come spine dorsali Columbus Ave. e Broadway, nostalgici fricchettoni, studenti novelli, scrittori in crisi e viaggiatori erranti possono finalmente vivere quel paio d’ore di gloria che tanto aspettavano: la visita alla City Lights, la libreria fondata da Ferlinghetti e Peter Martin back in 1953, e il Beat Museum, un piccolo tempietto della malinconia. I due fari ormai consunti ma ancora parlanti della Beat Generation made in San Francisco. Io ero, ovviamente, tra quelli che nel cammino tra un faro e l’altro si fumano almeno due sigarette dei ricordi.

La libreria ha un’atmosfera speciale e questo è innegabile: in un piccolo anfratto sono esposte alcune pubblicazioni indipendenti e alternative della scena letteraria di provenienza – soprattutto – west coast (magazine, raccolte di poesie, manifesti letterari); la zona “narrativa straniera” è più fornita rispetto a qualsiasi altra libreria americana (tanti i romanzi di provenienza francese); il piano di sotto è il paradiso dei cercatori d’oro, con centinaia di libri usati e tantissima non fiction di tutti i generi; e, infine, il piano di sopra ha pareti dedicate – of course – agli scrittori beat, alle novità e alla poesia (tantissima, impressionante). Contrariamente alle altre librerie in cui sono stata il personale è antipatico e non saluta, né al Hi, né tantomeno al Goodbye. Però sulle scale ci sono tantissime belle foto e presto dei viventi te ne dimentichi completamente.

Il Beat Museum, invece, è specializzato soltanto in opere che risalgono al periodo originale della Beat Generation e per questo è più facile scovare qualche libro sconosciuto o chiacchierare amabilmente per ore con il ragazzo che lo gestisce dei rispettivi gusti, dell’auto di Jack Kerouac in On the Road (che è anche la figurina del mio blog) o della macchina da scrivere di Allen Ginsberg custodita dietro il tendone d’accesso al museo. La visita costa 8 dollari ed è curiosa, soprattutto per gli appassionati di cimeli. Nel museo ho comprato tantissime cartoline che poi ho mandato ai miei parenti più freak, questo libro e sono stata molto indecisa se acquistare anche un numero della collezione gigante di Playboy conservata lì in un angolo. Ho desistito per mancanza di soldi.

Terza tappa: i giovani. E’ facile che in un ambiente così, che da più di mezzo secolo inebria scrittori e artisti consacrandone qualcuno a fama imperitura, alcuni nuovi geni si trovino a proprio agio e facciano di quella ebbrezza una vera e propria guida spirituale e materiale. Tra questi c’è l’ormai canonizzato Dave Eggers, che prima di essere risucchiato (benevolmente, a parer mio) dal sistema (in parte l’ha proprio creato lui il sistema) si è autoproclamato “formidabile genio” nel titolo del suo romanzo più famoso (operazione di autopromozione che evidentemente ha funzionato), ha fondato una rivista mitica – una specie di top model della letteratura, ma con le palle e il coraggio di un vero duro del cinema, scegliete voi quale – poi una casa editrice poi una scuola di scrittura. Nel frattempo ha continuato a scrivere bei romanzi (Zeitoun, che meraviglia!), sceneggiature, saggi, lettere, prefazioni, racconti orali e poi fatelo smettere ché non si riesce a stargli dietro. Al numero 826 di Valencia Street a San Francisco c’è la sede originale della scuola di scrittura di Dave Eggers. Solo che se non lo sai non la vedi. Io quella via l’ho percorsa tutta – faceva un freddo mostruoso – e all’826 mi sono fermata ben due volte ma entrambe le volte in vetrina ho visto soltanto vecchi forzieri, carte da gioco con teschi, bandane per un occhio solo, candelabri e sirene mignon. Ho visto, in sostanza, un negozio di impallinati di pirati. Mi sono decisa a entrare perché, checcavolo, ero andata fin lì apposta, mica tornavo indietro e soggiacevo all’ignoranza. Una volta entrata e oltrepassati i pirateschi aggeggi, ho visto questo:


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Sugli scaffali i libri degli autori di McSweeney’s, alcuni numeri dell’omonima rivista e le raccolte dei racconti degli allievi della scuola. Nel forziere pure, ma c’è anche The Believer.



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In primo piano la lavagna degli impegni degli insegnanti della scuola, dietro la scuola.



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La scuola.


Praticamente, mi dice il ragazzo che sta dietro la cassa, le scuole di scrittura creativa di Dave Eggers, rivolte a ragazzini dai 6 ai 18 anni che spesso soffrono di qualche disagio esistenziale, sono ormai sette o otto in tutti gli Stati Uniti e ognuna di queste si loca nella parte posteriore di un negozio a tema: ci sono gli abissi del mare, gli astronauti, i pirati, le creature del bosco e chissà cos’altro. Io l’ho trovata un’idea geniale. Appunto.

Per consacrare la mia visita letteraria a San Francisco, in mezzo ai cimeli dei pirati, ho scovato e poi comprato una bellissima mappina, la San Francisco Literary Map. Che nella prima pagina dice così:

We’re not quite sure why there are so many writers here, but we’re inclined to blame the weather. This is the one crop for which the San Francisco climate is ideal. Alternately gorgeous and foggy, usually in the same day, it forces you out, then back in, with nothing better to do than record your recent adventures.

E infatti eccole qui.

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