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#lovingNYC | Cavatappi

Sono in aeroporto, il mio volo ha un ritardo di tre ore e, qui seduta per terra di fronte a decine di persone già stanche, penso che sono venuta in aeroporto in metro. Non era necessario, avevo tutto il tempo i soldi l’intenzione di venire con un car service, ma ho scelto la metro. C’è un processo di entrata e di uscita dalle città che, io credo, va onorato. Anzi, con le città che in qualche modo ti sono amiche o, di più, amanti c’è un rapporto di forza che va rispettato, sia in entrata che in uscita.

Entro piano, esco se riesco. Entro piano perché arrivo quasi come un’estranea mentre tu stai facendo la tua vita, esco che sono diventata parte di quella vita e bisogna vedere se vogliamo davvero, se possiamo davvero dividerci.

Sono uscita di casa alle 14.30, sono arrivata in aeroporto quasi due ore dopo. Nel percorso: si è rotta una ruota della valigia, ho chiesto a un ragazzo in che direzione dovevo cambiare la metro e insieme ci siamo messi a criticare la difficoltà con cui qualcuno ci stava obbligando a fare una cosa semplice, ho visto un topo gigante sui binari (l’ultimo di molti), ho socializzato con tre spagnoli che stavano per dimenticarsi di scendere dal treno, ho dimenticato di fare la foto di addio, ho cercato di dare a un ragazzo la mia scheda della metro con ancora qualche corsa dentro ma lui ne voleva un’altra, ho giocato a intravedere i grattacieli più alti dello skyline nella foschia fuori dall’airtrain – l’ultimo tratto di ruote e binari, quello che si ferma a ogni terminal del JFK – e, infine, ho elaborato lunghe teorie sul perché i militari hanno sempre le borse più grandi e più scomode, come se il loro addestramento iniziasse, appunto, già in metro.

Entro piano, esco se riesco: se New York desidera che io me ne vada, allora non voglio rinunciare al suo saluto, non voglio perdermi quelle sue ultime sorprese che poi magari diventano anche le più leggendarie. Gli ultimi giorni di viaggio non sono mai i più belli, hanno con sé la malinconia, hanno con sé quella dolce tristezza del non sapere quando e se tornerai: la spontaneità del saluto non la negozio con un taxi. Eccolo, l’aeroporto, quindi. Ed ecco quella sensazione del quando e se tornerai, che da malinconica diventa un po’ paurosa. Le persone stanche davanti a me guardano all’arrivo, io sono ancora che cammino nella mia partenza, sono qui che passeggio all’indietro verso il giorno prima, il giorno due, la mattina del quarto, la sera del sesto, sono qui che scappo da un se e da un chissà quando, parole brevi e quesiti senza controllo.

La seconda sera, poco dopo il mio arrivo, la mia amica Francesca mi aveva fatto scoprire una cosa straordinaria: il traghetto di Ikea. Una piccola navetta che ogni giorno, più volte al giorno, porta le persone da Lower Manhattan all’Ikea di Brooklyn, costeggiando la Statua della Libertà, tagliando la baia intera e facendo anche una seconda fermata nei pressi di casa mia. Sì, il traghetto di Ikea ferma a Red Hook, Ikea è a Red Hook. E a Red Hook, come è giusto che sia, si arriva via mare. Anche l’ultimo approdo, ieri, avrebbe dovuto essere via mare, e invece una sorpresa: il pomeriggio da vere newyorchesi ci aveva visto a SoHo a girare per librerie e negozi, a mangiare avocado in un locale salutare, a restare in quel locale per fare una riunione di lavoro, a farci fare le unghie in un centro estetico con dei finestroni così tipicamente manhattiani che persino il sole si commuoveva a infilarci i raggi del tramonto dentro e, infine, a correre per prendere la metro e il traghetto e accorgerci che se anche li avessimo presi saremmo comunque arrivate troppo tardi alla cena.

Taxi. Ieri il taxi è stato perfetto.

Perfetto perché ieri, infatti, non era giorno di saluti. C’era ancora una serata, c’era ancora una mattinata. Musica, carne, birra, pancake, un appuntamento al buio con un libro comprato giorni prima e ancora non scartato, uno o due battibecchi, due passeggiate da e verso casa, la lavanderia, la bici, il bicchiere della staffa, il sosia di un attore famoso (e bellissimo), un selfie da mandare a un amico, uno sguardo di sfuggita ai grattacieli oltre la baia, il temporale al risveglio, un sole soffocante alla partenza, un cavatappi da lasciare in casa come segno del mio passaggio.

Entro piano, esco se riesco. Lascio un segno del mio passaggio, spero che sia un segno di festa. Entro piano, esco se riesco. Il se e il quando continueranno a darmi la caccia, lascio un segno del mio passaggio e spero che qualcuno, in quella casa che è stata mia e che sarà di altri come me, tenga sempre una bottiglia in fresco e resti in attesa della prossima metro.

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