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#lovingNYC | Ricordo

Leaving New York never easy cantavano una volta i REM. Lasciare New York non è mai facile, neanche se devi andare a fare una gita. La prima volta che venni qui, sette anni fa, il piano era che stessi una settimana in città e poi volassi in Kansas al matrimonio di un'amica. Quando lo dissi ai ragazzi dell'albergo dove stavo, valigia in mano e pronta a salutarli, loro scoppiarono a ridere e mi dissero: "Sei a New York, ragazza! Come ti salta in mente di andare nel fucking Kansas? There is nothing to do in Kansas."

E infatti. Il giorno dopo mi videro tornare indietro, sempre la stessa valigia nella mano ma altre due borse giganti sotto gli occhi, e scoppiarono ancora a ridere. Li salutai nuovamente, distrutta ma anche un po' contenta, e dissi loro che c'era stata una tempesta e che non avevano fatto partire i voli e che io in Kansas non ci andavo più e che mi trovassero alla svelta una stanza dove stare almeno altre cinque notti altrimenti sarei scoppiata a piangere dalla stanchezza da lì a un minuto.

Stamattina non andavo in Kansas. Stamattina dovevo semplicemente andare a Monticello, ma il messaggio della città mi sembrava identico: leaving New York never easy. No, never. C'è questa enorme stazione dei bus, attaccata a Times Square, in cui sembra di assistere a una riproduzione personalizzata di Labyrinth, non certo a un'espressione newyorchese del 2017: tutte le indicazioni sono vaghe e nessuna è corretta, se chiedi un'informazione ognuno ti manda in una direzione diversa (downstairs, second floor, left, right, around the corner; me le hanno dette tutte rispondendo tutti alla stessa domanda); se per caso quell'indicazione non la capisci perché ti parlano per sigle e tu la RTF non hai la benché minima idea di che cazzo sia, ti gridano; se non ti gridano ti fanno intendere che comunque sei un po' cretina. Può essere che io lo sia, ma in ogni caso le indicazioni non ci sono e voi mi state chiedendo un miracolo. Quello di salire su un bus e uscire da New York City.

Ci sono riuscita, alla fine.

Un isolato tra i grattacieli, un tunnel sotto l'Hudson River, un breve tratto di strada a due corsie con Manhattan alle spalle e in un battibaleno sono fuori. Verde, campagna, orizzonte, nuvoloni, una giornata particolare davanti a me che si svilupperà tutta in piano. E che piano!

A Monticello, New York State, a una stazione degli autobus decisamente più semplice e misurata di quella di partenza mi aspetta Pietro, un signore italiano che vive in America dalla fine degli anni Ottanta e che, insieme a un indaffarato e giovane gruppo di colleghi che ho avuto il piacere di conoscere nelle ore successive, gestisce una distilleria di whiskey, vodka, gin e grappa ai piedi di una collina mitica. La Catskills Distilling Company, ovvero l'ultimo passo prima di curvare a est e ritrovarsi a Woodstock.

Woodstock, la cosa più lontana da New York che si possa immaginare eppure così simile per potenza e portata narrativa. Da un lato l'idea utopistica di una città per tutti, dall'altro il sogno di una comunità che fa l'amore e non la guerra; da un lato la concentrazione democratica di milioni di persone tutte diverse in uno stesso reticolato urbano, dall'altro la comunione pacifica di seicentomila persone su un solo prato; da un lato la scrittura e l'architettura, dall'altro la musica; da un lato l'estensione verticale vertiginosa, dall'altro l'estensione orizzontale oceanica.


Arrivare qui è stato difficile, starci fa un certo effetto: nel piano di sotto dell'ufficio di Pietro c'è una mostra di fotografie inedite del concerto, fotografie che sono esattamente come ve le immaginate ma con quel tocco di autenticità in più lasciato sulla pellicola dalla semplice prossimità a dove sono state scattate, nel centro del giardino della distilleria c'è un cartello con l'indicazione Woodstock che indica verso la curva, la padrona stessa della distilleria era una bambina che sedeva sul muretto di quel piccolo paese quando nell'estate del 1969 arrivavano ragazzi da tutta l'America per dare vita alla più grande idea di pace sulla Terra. Dev'essere bello avere un ricordo di questo tipo, penso mentre Pietro me lo racconta. Dev'essere ancora più bello averlo vissuto, quel ricordo, penso dopo aver visto il museo che oggi sorge sulla collina e mentre assaggio tutti i whiskey che vengono prodotti dalla distilleria seduta al loro bancone.

So tante cose di Woodstock perché i miei genitori me ne hanno sempre parlato e perché ancora adesso in casa si ascolta quella musica, si respira quell'aria. Come spesso succede, poi, trovarsi in una realtà che hai sempre considerato una narrazione fa un effetto un po' fantascientifico, un effetto per cui tutto sembra uguale ma è diverso, tutto è lontano ma allo stesso tempo vicinissimo. I whiskey sono molto buoni, l'atmosfera è rilassata, il posto è di quelli che poi tiri tardi perché stai bene e c'è una chitarra là dietro che aspetta solo che qualcuno la suoni. Solo che io ho un appuntamento con l'altra grande narrazione, l'altra grande storia che mi ha fatto sua in questi giorni e che, se tanto mi ha concesso di farmi andare via stamattina, poco mi permette di tardare. Alle 18 sono di nuovo sul bus, torno indietro, torno a casa, ancora due giorni a New York, Woodstock è di nuovo una musica che mi accompagna nella strada del ritorno e che mi fa pensare una cosa un po' malinconica ma vera: con canzoni così innamorarsi una volta era più facile.

Mi addormento, c'è un sobbalzo, mi sveglio: di nuovo quello skyline che brucia al tramonto alla mia sinistra e l'idea di non voler fare più tutta quella fatica per lasciarlo, semplicemente perché non lo lascerò più.

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