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#lovingNYC | Totem

Dovevo scendere a Union Square ma ho mancato la fermata. La metro era partita da Carroll Street a Brooklyn e andava verso nord, né lenta né veloce. Dovevo scendere a Union Square ma stavo pensando e ho mancato la fermata.

Quando ero piccola andavo agli scout. In uno dei momenti di passaggio da un gruppo a un altro, i tuoi amici, quelli della tua “squadriglia” in particolare, che ti avevano conosciuto sopportato aiutato scherzato per cinque lunghi anni, dovevano conferirti un totem, un titolo nuovo dal forte valore evocativo, composto dal nome di un animale e un aggettivo qualificativo, una qualità. Il totem si suppone che ti rappresenti il meglio possibile, su un livello non umano. Nel mio gruppo, ancora, il totem veniva inciso a fuoco sulla tua cintura di cuoio, e così, a meno che non gettassi via l’intera cintura, te lo tenevi per tutta la vita ad altezza pancia.

Credevo che l’inquietudine fosse una caratteristica che avevo sviluppato da grande, negli ultimi anni e dopo che la mia vita era diventata abbastanza lunga da diventare una storia. Invece no. Sulla metro da Carroll a Union Square pensavo che le mie amiche degli scout avevano scelto per me l’aggettivo “inquieto” già a 17 anni e poco importava che l’animale di cui era qualità fosse una tigre. L’inquietudine privava il felino della sua placida sovranità, lo faceva già da allora e mai, realizzavo nei sotterranei sudici e rumorosi di New York, aveva smesso.

Anzi no. Talvolta l’aveva fatto. E ogni volta che era successo era stato in America.

57th Street, Rockefeller Center. Next stop 57th Street, Rockefeller Center. Whaaat? Il mio treno era finito cinque fermate oltre Union Square, la mia testa chissà dove.

Non c’è miglior posto della metro di New York per smettere di sentirsi speciali. Avevo un amico, la prima volta che ero venuta in questa città, che scriveva racconti – bellissimi racconti – sulle persone che vedeva sui vagoni. Non era l’unico, ovviamente: era l’ennesimo. C’è tanta di quella letteratura sotterranea, underground, metropolitana, c’è tanta di quella scrittura di strada, c’è tanta di quella mitologia vagone per vagone fermata per fermata che prendere un treno in questa città può ben voler dire infrangere il confine realtà-finzione.

Là sotto siamo tutti personaggi diversi di storie diverse, siamo tutti protagonisti di storie private, siamo tutti caratteri studiati dagli occhi degli altri. Andiamo tutti nella stessa direzione ma arriviamo tutti da posti diversi. E non intendo quelli geografici, ma quelli esistenziali. Animale e aggettivo, un rito di passaggio, cintura sulla pancia. Nella molteplicità dei totem altrui, di quegli sguardi, di quelle posizioni, dei colori, delle intenzioni, nella varietà dei racconti che porta con sé ogni gesto, qualsivoglia inquietudine portata dal tempo si placa.

C’è questa ragazza di spalle che ha le gambe corte e i tacchi nascosti, e poi la mano sul fianco e lo spacco del vestito sportivo, due proclami di femminilità che si fanno guardare; c’è un signore che se ne frega di tutto sì e ascolta la musica altissima da una radio nascosta nel suo carrello pieno zeppo di roba, immobile; c’è una ragazza ispanica poi una francese poi una afroamericana e tutte e tre fanno la stessa cosa, comunicano con il telefono senza che dall’altra parte ci sia qualcuno; c’è questa mamma che ha un bimbo adorabile che le dorme addosso e che, ogni cinque minuti, controlla che lui non le abbia sbavato sulle gambe, e poi si china a dargli un bacino; ci sono quei due nell’angolo che se la ridono; ci sono quelli lontani che si stanno per baciare; c’è il ciclista figo e poi c’è lui, quello che li ritrae tutti quanti, e che forse ritrae anche il mio personaggio.

Chissà cosa avrà visto lui di me ora che sono qui e l’inquietudine mi si è sciolta. Lo immagino che disegna una tigre che sovrasta la savana senza però sapere in quale savana sta ruggendo.

57th Street, Rockefeller Center. Next stop 57th Street, Rockefeller Center!!

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