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Non c’è santo senza umano | David Foster Wallace


Figurina #7 - david foster wallace

Quando David Foster Wallace era nel pieno della stesura di Infinite Jest, l’università di una cittadina sperduta nei campi di grano del Central Illinois, il cuore del Midwest, lo chiamò per proporgli la cattedra di Letteratura Inglese. La cittadina sperduta si chiamava Bloomington-Normal (doppio nome per due paesi gemelli che se non fosse per una strada dritta che li divide sarebbero uno solo), l’università era la Illinois State University. La cittadina non era per nulla lontana da Urbana, quella in cui lo scrittore trascorse l’adolescenza e imparò a giocare a tennis, e la familiarità di un paesaggio orizzontale e geometrico in cui lui si trovava a suo agio unita alla possibilità di poter impiegare il proprio tempo a fare le due cose che di più amava al mondo – scrivere e insegnare -, ecco, questa corrispondenza tra spazio intimo e spazio esterno tenne DFW legato a Bloomington – e lontano dalle caotiche coste – per poco meno di dieci anni. I dieci anni clou, quelli proprio a cavallo della pubblicazione di Infinite Jest.

Quest’anno la Illinois State University organizza la prima David Foster Wallace Conference e invita tra le sue aule (in realtà sale conferenze dell’enorme albergo Marriott), il prossimo venerdì 23 maggio, studenti e studiosi che abbiano da proporre, a scelta, uno di questi tre contributi: un lavoro originale sull’autore, un pensiero originale di critica letteraria sulle nuove forme del romanzo contemporaneo, un’opera di narrativa creativa e originale. Un invito, dunque, in pieno spirito wallaciano, avvalorato dalla presenza di tutto lo staff che in quegli anni lavorò con lo scrittore e dall’intervento di Stephen J. Burn, keynote speaker per l’occasione nonché curatore delle ultime raccolte di interviste, lettere e conversazioni di DFW (sto parlando di Un antidoto contro la solitudine, minimum fax, 2013, per restare in Italia).

Tra queste conversazioni ne manca, però, una. Quella dello scrittore Joshua Ferris quando, da studente, si recò dalla University of Iowa di Iowa City alla Illinois State University di Bloomington – from Midwest to Midwest – per intervistare DFW e visse, con lui e grazie alla sua informalità, un’esperienza di quelle che ribaltano un po’ tutto. L’esperienza di quando ti senti piccolo piccolo perché devi incontrare un genio e poi è proprio quel genio che non solo ti mette a tuo agio ma fa della tua umanità il suo stesso sostegno.

Alcuni ricordi della mia intervista: condivideva lo studio con un altro docente, guidava una Volkswagen scassatissima, mangiammo pizza al taglio dentro il campus. Alla mia domanda, compiaciuta e innocente, sul perché lui vivesse nel Midwest e non a New York, la città dove vivono tutti i Grandi Scrittori, lui rispose, altrettanto innocentemente: “Io amo il Midwest.” Quando salimmo sulla sua VW lui si scusò per il disordine e per la marmitta in cattivo stato. Alla mia richiesta di pagare per la pizza, lui disse: “No, no, risparmia i soldi. Sei ancora uno studente.” A proposito del mio metodo giornalistico, lui osservò: “Non ho mai conosciuto un reporter che non usasse un registratore.” Non avevo alcun dubbio che a quel punto lui avesse capito che genere di “giornalista” io fossi e, ciononostante, mentre mangiavamo e parlavamo e io prendevo appunti (su Infinite Jest: “L’ho scritto negli intervalli tra una pulizia del frigo e l’altra”), lui mi trattò come se io fossi stato Edmund Wilson.

Questa è una delle mie Figurine, la collezione di curiosità americane più o meno introvabili.

Livello di introvabilità di questa figurina: alto.

Come vi dicevo, è stata tratta (e liberamente tradotta, perché in italiano ancora non c’è) da un articolo del “Guardian” di Joshua Ferris, scritto in occasione della scomparsa di David Foster Wallace il 12 settembre 2008. Avrei voluto trascrivervi la fine dell’articolo, ma invece ho cambiato idea all’ultimo e mi piacerebbe che quelle parole, quelle di Wallace incazzato che si sfoga con Ferris incredulo qualche mese dopo l’intervista, andaste a leggervele da voi. Se poi avete difficoltà con l’inglese – ma non credo – fate un fischio e io le aggiungo qui sotto. Sto lavorando tanto sull’intimità di questo scrittore e sul suo rapporto con lo spazio e il prossimo: più ci lavoro più penso che l’intervento di un qualsiasi interprete debba essere il più delicato possibile, personale ma praticamente impercettibile.

E oggi ho iniziato così.

Siccome questa è una figurina speciale, avrete notato alcune cose:

  1. è più lunga del solito;

  2. è un’edizione limitata;

  3. il tamarro non ci fa paura, neanche quando si parla di DFW;

  4. Thomas Guiducci, infatti, che di solito si occupa della realizzazione grafica con garbo e sobrietà, oggi si è scatenato.

Applausi.

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