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Pacific Northwest #4 – Richard Brautigan

Continuano le Lezioni Americane, la rubrica in cui si raccontano le tappe del mio viaggio/corso di Letteratura Americana e insieme si scopre come, perché e soprattutto con chi andare per le sue strade. Tenendo sempre bene a mente una cosa: il corso è un esperimento narrativo a motore acceso, dove si guarda alla strada come luogo ideale per incontrare scrittori, musicisti, registi, politici, artisti ed editori, dar loro la parola e farci raccontare il paese in cui vivono, lo stato – in particolare – attraverso il quale passa il loro cammino.

In questi mesi giriamo il PACIFIC NORTHWEST e la quarta tappa del viaggio ci porta nei paesaggi boscosi e lacustri dello stato dell’Oregon, uno spazio tanto naturale quanto mitico dove trascorse la giovinezza uno degli scrittori più dolci e sensibili d’America, Richard Brautigan. Questa tappa all’inizio l’ho chiamata così:

BOSCHI, INGENUITÀ E FOLLIE

ma poi, durante la lezione e nei giorni successivi, io e miei compagni di viaggio l’abbiamo ricordata solo più così:

NIENTE SENSO, MOLTA BELLEZZA


Una definizione dell’opera di Brautigan pensata da Alessandro Baricco. Nonostante io non sia una grande fan dello scrittore italiano, anzi, tenda spesso a mettere in luce quello che di lui non sopporto, alle volte mi devo arrendere alla bellezza delle sue parole e all’assenza di senso delle mie. Niente senso, molta bellezza: già! Baricco, del romanzo brautiganiano che accompagna questa tappa, American Dust, scrisse su “Repubblica” una recensione ispirata e poetica. Una recensione in cui confessava il suo senso di sorpresa per essere inaspettatamente incappato in un’opera di una bellezza così dimessa eppure evidente. Una recensione che della scrittura di American Dust dava queste definizioni:

  1. intensità mite;

  2. convalescente economia di parole;

  3. urlare sottovoce ma con una dolcezza infinita:

  4. è un libro postumo come la pelle dei vecchi;

  5. frasi brevi, si va a capo ogni 5 righe, solo 100 pagine > si vede la penna stanca;

  6. ogni periodo è come uno scalino dopo un’operazione al femore;

  7. è tutta una questione di morti;

  8. c’è il ragazzino e tutto il resto sa di sconfitta, povertà e morte;

  9. lui vede l’incanto della bellezza > niente senso, molta bellezza;

  10. è un libro che fa ridere dentro;

  11. una leggerezza magnifica e una tristezza che non è triste mai.

Ma chi è, viene da chiedersi, questo scrittore capace di gesti creativi tanto preziosi? Tanto dolci?


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Richard Brautigan fu uno scrittore a suo tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta – famoso come una star e maledetto come un eroe. Scrisse tanto: 10 libri di poesia, 11 di prosa e altri dal genere indefinito. La sua opera più famosa, quella che lo consegnò alla fama mondiale, fu Pesca alla trota in America, un libro di frammenti e miti che gli valse il titolo di precursore della controcultura ed esponente della Beat Generation (anche se di fatto Brautigan non appartenne ufficialmente a nessuno dei due). La sua gloria letteraria durò circa dieci anni, poi fu dimenticato. Fu ignorato e gettato via da famiglia, pubblico e colleghi. Non sopportando più la propria solitudine, un autunno di metà anni Ottanta, in un luogo così perfetto quanto crudele di nome Bolinas, in California, da solo nella sua casa sul Pacifico, si sparò. Era talmente solo che si dice che il suo cadavere fu ritrovato addirittura un mese dopo.


Due anni prima di morire, tuttavia, Brautigan scrisse il suo ultimo romanzo, American Dust, ambientato non nel presente ma negli spazi e nel tempo della sua giovinezza: Oregon, 1947-48. Un testo narrato in prima persona ed evidentemente autobiografico anche se – si percepisce dalla surrealtà degli eventi raccontati – non del tutto affidabile, l’ultima storia brautiganiana scava negli anni a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza dell’autore per riportare alla memoria un trauma indelebile e il senso di nostalgia che da quel momento lo segnò per sempre come un’ombra di schizofrenia e paranoia: l’uccisione involontaria del suo migliore amico. Un’azione che, nel flusso della storia, inizia solo a pagina 58, quando Brautigan ragazzino si trova costretto a interrompere a forza tutta un’altra serie di storie che a lui piacciono di più per, finalmente, confessare. Chi sono i personaggi di queste altre storie, però? In primis, la coppia di ciccioni che ogni giorno arreda un salottino con tanto di divano e tavolini in riva al lago e si accomoda lì per pescare; poi il guardiano della segheria, sempre ubriaco ma sempre vestito come un damerino; la bambina che vive nelle pompe funebri e ha le mani fredde; il vecchio dalla barba lunga che ha costruito il più bel pontile e la più bella barca del lago ma non li ha usati mai; tre bambini morti e, infine, quell’hamburger che se solo Richard fosse entrato a mangiarlo invece di preferirgli i proiettili nuovi per il fucile la sua storia sarebbe stata diversa.


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Illustrazione di Manuel Fior (http://www.manuelefior.com/).


Niente senso, molta bellezza. Brautigan descrive e ci porta con sé in un paesaggio della fanciullezza che riecheggia la periferia di Carver ma che, al contrario della precisione di quest’ultimo, mette in gioco la surrealtà di un salotto in riva al lago, ovvero uno spazio in cui tutto sembra essere delicato ma fuori contesto, incantevole ma effimero, proprio come la cantilena che si ripete ogni due o tre pagine dentro il romanzo: “Prima che il vento si porti via tutto. Polvere… d’America… polvere.”

Non c’è nessun collante a tenere unite le cose se non il bisogno di vivere e la necessità di morire. Oggetti ed esseri umani in questo breve romanzo se ne stanno lì, bizzarri e indifesi come granelli di polvere, del tutto scollegati dal loro contesto, pronti a essere spazzati via dal vento, uniti soltanto dallo sguardo e dal fucile di un adolescente.

Così scrive la redazione di ISBN, l’editore italiano di Brautigan

, nella postfazione del libro. Le medesime parole, tuttavia, si potrebbero usare per definire anche l’autore, un uomo bizzarro e indifeso, scollegato dalla sua realtà povera, incoerente e crudele, che un giorno lontano del 1955 fu rinchiuso per due mesi nell’ospedale psichiatrico di Salem, Oregon, e sottoposto a 12 elettroshock per aver rotto con un sasso le vetrate di una stazione di polizia. Senza alcuna ironia della sorte, quello – esattamente quello – fu l’ospedale in cui lo scrittore Ken Kesey e poi il regista Miloš Forman ambientarono Qualcuno volò sul nido del cuculo, la storia di una, dieci, infinite originalità interpretate come follia e curate con l’isolamento e l’intransigenza.

Se Ferlinghetti diceva che nessun editore poteva più star dietro a Brautigan perché come scrittore non cresceva e non maturava  mai, della sua poetica naïf altri scrittori, poeti e lettori sono diventati grandi amanti ed esperti. Due su tutti: John F. Barber, il curatore del sito ufficiale di Brautigan nonché la più imponente opera bio-bibliografica digitale che io abbia mai visto online, e Malesangue, scrittore italiano che ha fatto di Pesca alla trota in America – il mito – una vitale ricerca personale e che qui racconta, secondo “bislacche” associazioni di idee e moti d’affetto, come e perché.

Non secondo senso – ovviamente – ma secondo bellezza.


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Nella quinta tappa del viaggio dalla presunta schizofrenia di Richard Brautigan si passa alla conclamata psichedelia delle storie e dei paesaggi di Tom Robbins, giungendo così sempre più vicini a Seattle, la città americana dall’anima tormentata e la superficie verde smeraldo.

Ci sono viaggi che si fanno da soli, e poi ci sono tutti gli altri.

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Cenni sulle precedenti lezioni si trovano qui.

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