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Se in questi giorni fossi a New Orleans griderei per Tennessee Williams

Se in questi giorni fossi a New Orleans sarei felice.

Se in questi giorni fossi a New Orleans non solo sarei tanto felice da gridare, ma griderei proprio per una persona in particolare: griderei per Tennessee Williams, il drammaturgo più amato d’America.

Dal 25 al 29 marzo, infatti, la Crescent City ospita la 29esima edizione di uno dei festival letterari più importanti del paese e, sicuramente, uno dei più caratteristici: il Tennessee Williams New Orleans Literary Festival. Accanto a un cartellone culturale di tutto rispetto – dedicato certo al teatro ma anche alla poesia e alla fiction – questa manifestazione merita d’essere amata perché, in pieno spirito mcmusiano, fa della letteratura un evento pop. Un evento informale e pieno di ingredienti divertenti, popolari, praticamente da luna park dell’intelletto.

Siccome raccontare i festival quando non puoi andarci è un’esperienza che al rammarico della distanza unisce soltanto la noia più totale, ho pensato che avrei giocato d’immaginazione, mischiando la realtà con la finzione che è una cosa che a me riesce bene, e vi avrei scritto una (lunga) cartolina. Un cartolina da un futuro che non si realizzerà mai.


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Ciao baby, come va? Ti dico come sto io? Sto stanchissima ma esaltata. Un classicone. Sono stati giorni allucinanti, pieni di parole comprensibili e soprattutto incomprensibili, di gente che recitava in strada notte e giorno, dei neri che suonavano ovunque come sempre ma adesso ancora più forte, di gamberi nelle zuppe che si moltiplicavano ad ogni ora del giorno, di grida che non ne avevo mai sentite di così forti e da spaccarsi dal ridere, la città in festa di tripudio. E tutto in nome della letteratura e del teatro. Weird, uh? Il prossimo anno vieni anche tu così vediamo se ti dai una svegliata. La prima sera di festival, mercoledì 25, siamo andati a vedere un’opera di Tennessee Williams che io ancora non conoscevo, tanto per fare le persone serie almeno all’inizio, Suddenly Last Summer, che tratta più o meno gli stessi temi di A Streetcar Named Desire: sessualità, infermità mentale, verità e brutalità. Bello bello. Il giorno dopo ho partecipato – da sola perché sono la vera secchiona del gruppo – alla Writing Marathon: 4 ore di scrittura non stop in giro per i locali, le strade, i giardini del French Quarter. Una figata, se non fosse che poi dovevamo sharare quello che avevamo scritto e io avevo scritto tutto in italiano. Li ho fatti ridere, ho letto qualcosa lo stesso perché a loro sembra che noi quando parliamo cantiamo. Anche a me, in effetti, in questo caso. La sera siamo andati a mangiare una cosa veloce in un locale, io non stavo in piedi. Giorno dopo cura dell’intelletto con un incontro molto interessante sugli scrittori della Louisiana, su come il territorio influenza la loro narrativa (si chiamava Louisiana Witness: Homegrown Narratives) + giro turistico-letterario attraverso i luoghi di New Orleans vissuti da Tennessee durante la sua vita + rappresentazione notturna a cura del NOLA Project Theater di A Streetcar Named Desire in chiave d’improvvisazione su suggerimenti dati dal pubblico. Improvvisare deve essere una di quelle cose della vita per cui provi tanta crudeltà quanto godimento: questi erano bravissimi, dei mostri. Però che ansia. Sabato pausa: siamo andati a fare picnic sul Mississippi, immersi nell’atmosfera del festival ma senza giostrarci dentro. Solo alle 5 di sera siamo andati a provare i cocktail vintage che facevano al Backspace Bar in occasione di un incontro sul proibizionismo a New Orleans negli anni Venti (dal nome Shaking Up Prohibition). Ti racconto di quand’era proibito bere facendoti bere: geni. Domenica giornatona: Joel Vig, un attore veterano di Broadway, si è inventato un one-man show in cui mette in scena l’amicizia tra Tennessee Williams e Truman Capote durante le loro goliardiche ed eccentriche vite. E le mette in scena nel mitico Hotel Monteleone, dove i due si incontravano e dove oggi li si celebra come due specie di scatenati santoni. È stato emozionante. Emozionante mai quanto lo Shouting Contest a Jackson Square, la piazza principale del French Quarter. Hai presente la scena di A Streetcar Named Desire quando Stanley (Marlone Brando in piena forma) dalla strada chiama Stella – sua moglie che è dentro casa con il muso perché lui l’ha appena maltrattata secca – sotto la pioggia, strappandosi la maglietta e dando sfogo a tutta la sua disperata virilità? Ecco: ogni anno, ogni giorno di chiusura festival una serie di persone pazze si dilettano nella stessa attività. Gareggiando. E sostentando le loro gole con secchiate di birra. No, ma hai idea? Il prossimo anno partecipo pure io, però faccio Stella che si fa chiamare dal balcone. Altro che Giulietta, cazzo. Ti ho pensato tanto, inizia a mettere i soldi da parte per l’anno prossimo che ci torniamo insieme. Baci ❤

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