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Tante donne per una sola magia: le 6 cose che mi ero dimenticata dell’America

Erano già tante settimane fa quando scrivevo che avevo tantissima voglia di andare a New York. Era un momento di sentimento prima di fare le valigie, una noce di nostalgia prima di partire per l’America un’altra volta.

Era l’inconsapevolezza prima di poter anche solo immaginare la scoperta della Louisiana. La Louisiana: così umida, colorata, decadente, eccessiva, inquietante. Magica, ma magica per davvero.

Era prima. Quel momento di sentimento era prima che potessi sapere che a New York ci sarei andata sul serio, proprio durante quel viaggio verso la Louisiana. All’improvviso, senza preavviso e per una notte soltanto, come una cara vecchia amica che ti reclama senza lasciarti scelta tra il sì e il no, un sabato sera New York è diventata gelida, ha sballato voli e bagagli, ha fatto venir giù onde giganti di neve e vento e mi ha detto: “Mi volevi, eccomi qui”.

Bentornata in America, Marta, bentornata nella terra dove veramente tutto è possibile. Te l’eri dimenticato, a stare così tanto tempo lontana da lei, ma adesso è ora di ricordare.


La notte di sabato sera trascorsa a Dumbo, sotto il ponte di Brooklyn, a bere birra e fare foto con la mia adorata compagna di viaggio Valeria non ha avuto niente a che fare con il ritrovamento del tu che il mio uomo-New York continuerà per sempre a rappresentare per me. Non ha avuto a che fare con la percezione del maschile, bensì con quella sensazione, quella apertura, quell’abbattimento delle barriere della comunicazione tra me e il mondo del possibile.

Ha avuto a che fare con l’accoglienza.

Ha avuto a che fare – ci ho riflettuto tanto ed è proprio così – con il lato femminile degli eventi.

Un femminile che, annunciato dalla neve e da quella serata inaspettata trascorsa all’insegna dell’amicizia (anche Valeria e New York, sapete, si sono frequentate a lungo qualche anno fa), ha trovato conferma poco dopo in una terra, la Louisiana, che è terribilmente donna: padrona, schiava, creola, ridanciana, emotiva, gravida, acquosa, affranta, generosa e ingenerosa a seconda delle nubi nel cielo.

Una terra, ancora la Louisiana, che ospita donne incredibili: è proprio attraverso di loro che riscopro la mia America, sono loro i nomi che raccontano la magia controversa di questo paese, sono loro le braccia che vi si aprono davanti leggendo queste parole. Affondateci dentro, se vi va, e sappiate che sono tutte nere tranne un paio.


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Uno. Dee, la strega del sistema. Le abbiamo parlato via mail e al telefono ma dal vivo non l’abbiamo mai vista; ci ha detto “No way” quando abbiamo reclamato uno sconto per il soggiorno nella sua guesthouse visto che una notte era andata persa a New York; ci ha chiamato “Honey” fino a un minuto prima di tirare in ballo i soldi. La porta della sua casa era aperta ma per entrare ci voleva un codice; ci ha lasciato a disposizione tutto il necessario tranne il suo cuore.

Due. Maureen, una mamma per amica. All’aeroporto di New York, dopo chissà quante ore di volo, due o tre corse inutili ai gate, sparizioni e ritrovamento di amiche e bagagli, ha lavorato in silenzio dietro uno schermo per un’intera mezz’ora finché non ne è emersa rassicurandoci sul nostro destino e regalandoci, nell’ordine: un voucher per una notte in hotel, tre voucher per tre pasti, un altro voucher per il taxi, un rassicurante e dolce sorriso e il premuroso consiglio di scegliere lo stesso hotel di quel ragazzo super cute che aveva perso l’aereo come noi e con cui sicuramente, secondo lei, avremmo dovuto trascorrere la serata.

Tre. Debra, la tifosa senza regole. Ha accostato il suo bus sulla strada vicino a noi nonostante non ci fosse la fermata, si è affacciata e ha detto dal suo posto di guidatrice che all’aeroporto ad affittare la macchina ci avrebbe accompagnato lei. Ha detto “A-ha” e poi altre cose con un accento cantilenante incomprensibile ma bellissimo, finché poi non ha gridato quando io ho gridato: “Merda, ho perso la giacca!”. Senza pensarci troppo, ha fatto inversione con il bus, mi ha fatto scendere in mezzo alla strada ad alto scorrimento, mi ha detto di saltare (sì, saltare) il guardrail nel centro e di cercare la mia giacca dall’altro lato. Quando mi ha intravisto tornare indietro correndo con la giacca in mano (e viva) si è messa a esultare saltando sul sedile con le braccia in alto e i denti scoperti in un sorriso scatenato.

Quattro. Monique, la modella della porta accanto. Boccoli biondi, labbra da bambola, lentiggini sulla pelle caramellata, al car rental ci ha chiesto tutti i nostri dati di guidatrici molto seriamente ma quando si è accorta che Valeria ha occupato tutto lo spazio sul foglio con la sua scrittura un po’ cicciotta senza lasciarmene neanche un po’ allora le è scappata una battuta adolescenziale e le è venuta voglia di ridere e trattarci come le sue amiche di sempre. Ha fatto così per tutto il resto del tempo, anche quando non siamo riuscite ad emettere il pagamento del guidatore aggiuntivo e lei ci ha detto: “Non importa, lo facciamo poi. Per adesso pensate solo a divertirvi e andate!”.

Cinque. Olivia, la speranza della provincia. Affamate e ancora eccitate per aver trovato la casa di Britney Spears in quel posto dimenticato da dio e pervaso da aria di morte che è Kentwood, noi stiamo dal lato di qua del bancone del fast food Popeye’s a studiare il menù elettrico lassù in alto mentre lei sta dal lato di là dietro le casse ad aspettarci. Mentre tutti i suoi colleghi in mezzo alle friggitrici e agli unti fornelli gridano tra loro a proposito – pare – della fuga di un bambino da scuola, lei ci guarda, ci squadra dall’alto verso il basso e ad un tratto dice sonoramente a Valeria: “You’re so fancy, babe”, testimoniando di essere stata l’unica – in tutto il viaggio proprio in questo posto sperduto – a notare il tratto inconfondibile del nostro stile italiano.


Sei. Sinead e le altre, le aiutanti del bosco altresì dette le weirdos. Siamo a Fort Macomb, il fortino che nella serie tv True Detective è diventato la mitica Carcosa. Loro si intravedono da lontano, noi le seguiamo con lo sguardo per capire come metterci sui loro passi: come delle guide fatate, ci aprono la strada e poi scompaiono dietro le mura invalicabili del sito storico. Troppo alte, troppo sdrucciolevoli, scalarle è davvero troppo pericoloso. Compare una di loro dall’altro lato di una delle finestrelle a grate di Carcosa: “Entrate da lì, da quell’angolo, dovete arrampicarvi!”. Non ce la facciamo. Stiamo per desistere quando arriva lei/lui: un ragazzo gay con la camminata più femminile della storia e però una potenza sovrumana da exogino. Prende prima me e poi Valeria dall’alto delle mura e ci tira su. Ci tira su dentro Carcosa e poi sparisce di nuovo. Torna dalle amiche e insieme riprendono a fare quello stavano facendo prima di incontrare queste due pazze fanatiche italiane: i teenager di una cittadina ancora immersa nella wilderness di questo lato d’America, che non si integrano con il resto dei compagni e usano il pomeriggio per fare esperimenti creativi con la propria solitudine in luoghi proibiti.

Bentornata in America, Marta, bentornata nella terra dove veramente tutto è possibile. Te l’eri dimenticato, a stare così tanto tempo lontana da lei, ma adesso è ora di ricordare.

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