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Una mossa o sono spacciato: Jack Kerouac

Immaginate di aver fatto una cosa grande nella vita e di esservici poi imprigionati dentro. Non era una cosa grande, quando l’avete pensata. Non era una cosa grande neanche quando l’avete fatta. Era solo l’unica. L’unica cosa giusta da fare. La più urgente, la più importante, la più vera. La più libera.

Quando Jack Kerouac prese un treno e partì per l’Ovest, la prima volta, fu per questo: sapeva che niente altro nella sua vita avrebbe gridato libertà! in modo altrettanto forte. La strada dritta – sempre lei – sotto il cielo che cambia – mai lo stesso – a fianco di terre che cambiano – ma è sempre la stessa terra anche se ogni volta cambia: andare avanti senza avere paura di cosa si lascia indietro. Era questo il senso dell’unica cosa giusta da fare. Per Jack, quella volta, ma in senso ideale anche per tutti noi che passiamo la giornata a testa china sull’affanno del momento e la sera, prima di dormire, neanche ce lo ricordiamo più cosa sia la cosa giusta da fare. La cosa umana.

La libertà.

Anni dopo, quando quella tratta leggendaria che si fa chiamare America Jack Kerouac l’aveva percorsa già così tante volte, su e giù, da est a ovest, da ovest a est, da solo o con Neal, sbronzo o sobrio, in pace o inquieto, scatenato o nostalgico, anni dopo quella tratta anche detta On the Road fu eletta a  simbolo di una generazione, a manifesto di una poetica, a scettro di un re ignaro che come corte aveva tutta la filosofia beat e come sudditi i più potenti, selvatici e raffinati freak della storia contemporanea, i beatnik.

Kerouac il re dei beat.

Kerouac benedetto.

Kerouac maledetto.


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Jack, Neal – il migliore amico che ispirò il celebre Dean Moriarty di “On the Road” – e sua figlia.


Per tutta la durata del suo regno, Jack fu un re involontario. Un re che non voleva essere re, che rifiutava quella responsabilità nonostante l’avesse inventata e percorsa per primo, un re che dei beatnik non sapeva proprio che farsene, a meno che – ovviamente – non fossero i suoi più cari amici. Un re che voleva essere umano e che come affetti più cari aveva degli artisti come lui, quegli stessi beat che la parola beat non la usavano proprio mai e che al suo posto, invece, si facevano un sorso. Un sorso per un battito. Ogni battito, un sorso. Era il 1960, un giorno d’estate, quando il re dei beat decise di spodestarsi da solo e attraversò ancora una volta il paese da New York a San Francisco per sfuggire al più cieco di tutti i boia: l’alcol. No, anzi, l’incubo che diventa la vita quando al posto della libertà ci finisce la droga.

Libertà, droga, creazione artistica, unicità, conflitto, vita, morte. Siete liberi di mettere in ordine gli elementi a seconda di cosa comanda il vostro personale codice morale causa-effetto. La certezza rimane una e rimane la stessa: tutti i più grandi artisti drogati del mondo sono stati re involontari. Re involontari di qualcosa: dite a Carver che è il capostipite del minimalismo. Alcol. Dite a Kurt Cobain che è l’icona del grunge. Eroina. Dite a Jim Morrison che è il re lucertola. Acido. Dite a Elvis che è il re del rock’n’roll. Benzedrina.

L’etichetta fa la prigione. La prigione ammazza la libertà. Chissà quando l’assenza di libertà – di cui la droga è solo una faccia sociale, al suo posto qualcuno ci mette l’ansia, altri la violenza, qualcuno il fanatismo, più spesso la noia – ucciderà te.

Dopo l’uscita di On the Road, dopo che finalmente il “New York Times” riconobbe la grandezza del romanzo e ne scrisse una recensione leggendaria, dopo una notte in cui non era nessuno e una mattina in cui tutti andarono in edicola, Jack Kerouac diventò il re prigioniero della sua stessa fortezza, una fortezza fatta di fama, sogni e parole scritte quasi di getto su un rullo con davanti la strada. Diventò l’attanagliato, l’icona beat che per le donne era anche sexy (e lo era davvero), l’icona beat che per gli uomini doveva diventare compagno di bevute o di risse, l’icona beat che per tutti – anche i più lontani – era il simbolo della possibilità di essere vivi ed essere liberi. Jack, intanto, che accanto a sé non aveva nessuna donna perché l’unica di cui era davvero innamorato era la moglie del suo migliore amico, viveva con la madre e l’amato gatto. Jack, intanto, si avvicinava ai 40 anni e sapeva che di quello che la gente vedeva in lui non era rimasto poi molto. Non era rimasto in verità quasi niente. Prese un treno, dicevo, il California Zephyr, e scappò dalla fama vuota del beat alla complicità carica di aspettative di Big Sur, nella baita primitiva dell’amico Ferlinghetti, dove la solitudine e la natura avrebbero dovuto restituirgli la libertà e staccargli via di dosso, una volta per tutte, l’etichetta, il regno, lo scettro e tutto quanto.

Dove avrebbe dovuto ritrovare la pace.

Dove avrebbe dovuto ritrovare se stesso.

E dove in realtà conobbe di sé i peggiori incubi e della natura il Diavolo.


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Da questa esperienza tanto edenica quanto visionaria e oscura nacque poi un romanzo. Un romanzo che Jack Kerouac scrisse di nuovo su un rullo, come era stato per On the Road, e che prenderà il nome dalla natura amica/nemica e si chiamerà per sempre Big Sur. Da questo romanzo, quasi 50 anni dopo, nascerà invece un documentario incantevole, One Fast Move or I’m Gone (da cui ho tratto i fotogrammi inseriti nel post), di cui presto – spero – vi racconterò qui: grandi nomi (Tom Waits, Patti Smith, Lawrence Ferlinghetti, Sam Shepard e tanti altri), grande colonna sonora a cura di Ben Gibbard e Jay Farrar (che sono riusciti nella difficilissima impresa di tradurre le parole dello scrittore in canzoni altrettanto emozionanti), immagini belle da piangere, immensa atmosfera da leggenda, tutto per raccontare di quel libro e di quell’esperienza sulla costa californiana, che di Jack fu una delle più estreme.

Oggi Big Sur/One Fast Move or I’m Gone, però, diventa anche il titolo del racconto musical-letterario che io e Thomas Guiducci porteremo in scena a partire da giugno 2014 proprio per farvi rivivere un po’ di quelle atmosfere e per mostrarvi Jack nella sua veste più disfatta, fragile, trepida. La veste che su di noi ha fatto più presa di qualsiasi altra etichetta dalla colla un po’ troppo secca.

Prossima data: sabato 8 ottobre 2016, Ombre Rosse di Alessandria, ore 21.

kerouac

The beat doesn’t go on. The beat goes to Big Sur.


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