Questo blog si apre con un viaggio in America. Un viaggio di due mesi e una settimana. Lungo e a lungo pianificato. Un mese nel Midwest, una manciata di giorni a Chicago, un mese di discesa sulla West Coast da Seattle a San Diego.
Ogni viaggio per l’America, però, inizia sempre all’aeroporto. Non come tutti gli altri, tuttavia: passaporto con il chip > ok, visto stampato anche se dicono che non ce ne sia bisogno > ok, liquidi separati dal resto > ok. Tutto regolare, compreso il battito cardiaco, tranne che dopo un attimo schizzi tra le nuvole verso la Germania (dove devi fare scalo), sei improvvisamente a Monaco, ti avvicini all’area di accesso per i voli diretti negli USA e hai la sfortuna di incappare nell’operatrice (non so se la chiamerei hostess) più tedescamente arcigna che qualcuno abbia mai incontrato. Ti sbarra la strada e vuole i tuoi documenti. Nonostante la sua non giovane età sta facendo l’apprendistato e questo la rende ancora più pistina e isterica. Non capisce perché io abbia due cognomi e non sa bene come e dove scriverli. Quando ci riesce prende la rincorsa e parte:
“Quando ha fatto le valigie?” (Alè, cominciamo..) Ieri.
“Chi si è preso cura delle sue valigie fino ad ora?” (Dai, questa è nuova!) Io.
“Qualcuno le ha fatto dei regali che ha messo in valigia?” (Ma che ne so?) No.
“Sta cercando lavoro negli Stati Uniti?” (Mi leggi nel pensiero, eh?) No.
“Trasporta armi?” (Mi piacerebbe..) No.
Silenzio. Vuol dire che posso passare, mi dà il permesso di raggiungere i miei compagni di viaggio che intanto sono già seduti al gate e ridono di me. Loro sono stati interrogati da un operatore giovane e affabile: “Andate negli USA per turismo?” Sì. Io sono ancora al di qua del metal detector.
10 ore di aereo: un buco temporale che passa in fretta.
Atterraggio a Chicago: alcune hostess (queste sì) dividono il flusso umano in arrivo. Turisti e passeggeri con visto temporaneo da un lato. Residenti e passeggeri con visto permanente dall’altro. Una poliziotta passa tra di noi con un beagle sniffante al guinzaglio che cerca – ciondolando – rimasugli di cibo avariato che qualcuno potrebbe aver accidentalmente regalato o messo nel bagaglio a mano del cugino che va in America, o, peggio, qualche batterio inoculato in aereo da arabi e sudamericani che vogliono distruggere il paese chimicamente.
Mi guardo intorno e mi pare di non scorgere terroristi all’orizzonte. Mi metto in coda al controllo passaporti, dove un David Gilmour mai visto così serio e tirato terrorizza i nuovi arrivati. Giunto il mio turno, decido di puntare tutto sulla fermezza della voce: Good evening, sir! Non funziona:
“Perché lei è qui?” (Ah be’, iniziamo bene..) Sto facendo uno scambio professionale.
“E che lavoro fa?” (…) Giornalista ed editor freelance.
“Quanto si ferma negli Stati Uniti?” (…) Circa due mesi.
“E com’è possibile che lei possa stare così tanto assente dal suo lavoro?” (Ah bene, e così vi hanno insegnato a mettere in crisi i passeggeri facendo leva sul senso del dovere? Con me potrebbe anche funzionare..) Essendo freelance posso lavorare da qualsiasi luogo.
“E che lavoro sta cercando negli Stati Uniti?” (Ma quindi vuoi fregarmi, you bastard!) Nessuno.
“Quanti soldi porta con sé? (Ok, non fare come sempre che in inglese confondi le centinaia con le migliaia..) Quattrocento dollari.
Impronte digitali di entrambe le mani e di tutte e dieci le dita, scan dell’iride e via, sei dentro. Spiazzata, ma in terra americana.
Arriva il momento bagagli, che smuove sempre qualcosa di religioso in ognuno di noi: resti in speranzosa attesa della comparsa di qualcosa che per molto tempo non vedi. La mia valigia rossa spunta in fretta, la prendo, la guardo, è lei. Ma il lucchetto che la chiude non è il mio. Non-è-il-mio. Panico: adesso come la apro? E chi è stato il burlone che mi ha fatto questo? Perché, soprattutto?
Inizio a interrogare qualsiasi operatore aeroportuale, qualsiasi persona che non sia un viaggiatore, per poco non torno da David Gilmour rischiando di farmi arrestare. Più mi avvicino all’uscita dell’aeroporto più le persone da me interrogate mi fissano incredule e ridono. “Quel gruppo di ragazzi vestiti di blu la può aiutare, young lady!” Mi precipito: sono poliziotti, mi guardano con gli occhi di fuori mentre racconto che qualcuno tra Monaco e Chicago ha chiuso la mia valigia con un lucchetto che non è il mio, hanno delle tronchesine enormi, si assicurano che io stia realmente chiedendo loro di scassinarla e mi liberano infine da questo mistero tuttora irrisolto. Quando infatti apro la valigia per assicurarmi che dentro sia tutto ok non trovo alcun foglio che dichiari la perquisizione, unica ipotesi plausibile. Vorrei non dover caricare questo episodio di significati nascosti.
Non è finita. Al check-in per il volo interno sorpresa: il volo per Bloomington è stato cancellato per neve. “You’re stuck in Chicago, guys!” Grida di gioia, lanci di valigie per aria, jet-lag improvvisamente azzerato, entusiasmo generale.
Dopo una doppia sigaretta di festeggiamento (una se l’è fumata il vento gelido che soffia incessante sulla città), pronti sul pulmino diretti all’albergo. E dopo poco, pronti sul taxi verso Chicago downtown. Pronti, infine, per iniziare il viaggio.
Da quale lato però? L’America scintillante, grandiosa e scatenata del blues, e il rock, e i musical..
Chicago Theater, una corsa downtown.
O quella controversa, sinistra e oscura di Shining?
Hotel Radisson, una notte da film, mentre fuori nevica.
Si vedrà, per stanotte la buonanotte me la canta il mio David Gilmour immaginario: WELCOME TO THE UNITED STATES OF AMERICA!
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