top of page
Immagine del redattoreLa McMusa

Cassandra al matrimonio, e io dove?

Per scrivere del vuoto ci vuole un pieno.

La scorsa settimana ho creato un giochino enigmistico per il blog: 5 libri, 5 blurb, trova l’accoppiamento perfetto. Avevo questa frase che mi girava in testa da quando avevo aperto (non chiuso, ma proprio iniziato) Cassandra al matrimonio: per scrivere del vuoto ci vuole un pieno. Ovvero: se la materia di cui si scrive è il nero, la depressione, il disarmo dei sentimenti, la solitudine; se lo si fa usando la prima persona, dunque il senso di esplorazione del proprio vuoto interiore, l’accumularsi di dubbi, richieste di soccorso silenziose e contraddittorie, riflessioni esterne e proiezioni interne; se la trama del romanzo esiste solo perché svuotata dall’azione della vita e riempita con l’ombra della morte, allora dall’altra parte della pagina – quella in cui sta la penna dell’autore – dev’esserci un pieno a controbilanciare. Ci dev’essere una scrittura forte, brillante, sorprendente, tesa e crudele. Ci dev’essere qualcuno che non sia dolce se non anche spietato, che non sia calmo se non anche incalzante. Ci dev’essere qualcuno che domina e colma con la propria presenza stilistica il vuoto che si è scelto di esplorare.

Paul Auster, quando scrive dell’uomo e dei suoi vuoti più svuotati, fa proprio così. Lo fa anche Michael Cunningham, per esempio, o Joan Didion. Dorothy Baker, invece, l’autrice che nel 1962 scrisse e pubblicò Cassandra al matrimonio, secondo me non lo fa, secondo me non è piena.

Lei, io credo, è spugnosa.


cassandra-al-matrimonio-dorothy-baker-recensione - mcmusa

C’è un bellissimo ranch paterno, con due soggiorni comunicanti e divisi da qualche scalino, una piscina, un bancone del bar con gli sgabelli. C’è una famiglia senza madre, con una nonna dalle buone maniere, un padre filosofo e compostamente dedito all’alcol, ci sono due sorelle gemelle – Cassandra e Judith – che si ritrovano al ranch perché una delle due si deve sposare con un ragazzo del Connecticut incontrato a New York. Uno studente di medicina. Per un caso più unico che raro, un caso perturbante e tragico, sposa e damigella hanno comprato esattamente lo stesso vestito da cerimonia. Solo che una desidera indossarlo e l’altra no, una desidera sposarsi e iniziare una nuova vita e l’altra desidera cadere nel vuoto dell’abbandono e del tradimento. L’anima di una è sana, l’anima dell’altra è malata, viziata da un veleno interiore che trova la sua fonte nella ricerca dell’identità. Se una delle sorelle è destinata a sposare un ragazzo deciso, di bell’aspetto e integro, l’altra sceglie il velluto nero, l’ovatta rassicurante del buio della morte. Può una gemella vivere senza l’altra? Può l’amore diventare possesso se il viso a cui rivolgo il mio sguardo è identico al mio? Può la mitologia del legame gemellare diventare fantascientifica ossessione?

Mentre, a capitoli alternati e sempre in prima persona, le due sorelle rispondono a queste domande obbligandoci a cambiare peso da un piede all’altro man mano che la storia procede e il giorno del matrimonio ufficiale si avvicina, l’autrice Dorothy Baker immerge ogni dialogo, ogni situazione, ogni dramma nello stesso candore dolce e fresco di cui profumano le lenzuola dei letti della casa; dipinge i contorni del mondo di finzione con lo stesso dignitoso decoro che la nonna usa per relazionarsi con il prossimo; detona il dramma di separazione delle due sorelle nell’acqua limpida della piscina del ranch, dove si nuota, ci si allontana nell’apnea, ci si purifica, si manda in frantumi un bicchiere solo per rimettere presto tutto a posto e non sapere neanche a chi si deve il disturbo di aver pulito.

Un bicchiere rotto non taglia, una borsetta piena di pillole persa per casa non graffia gli umori, il buio non consuma. Se il vuoto del personaggio non combacia con il pieno dell’autore allora spuntano scoccianti mezzelune di noia. O forse sono solo le assenze di una scrittura che fa da spugna e non da lama.

Alla fine del romanzo c’è un intervento dello scrittore Peter Cameron. Lui, recensore un filo troppo entusiasta per un libro che non tira mai i sentimenti fino al massimo della loro potenza, paragona il testo di Dorothy Baker a La campana di vetro di Sylvia Plath. Anzi, si stupisce del fatto che Cassandra Edwards sia arrivata un anno prima (1962) di Esther Greenwood (1963) e si chiede addirittura se la Plath abbia letto la Baker.

È vero, forse, che io ho letto questo libro non tenendo in considerazione il contesto storico e quindi chiedendo potenza ed estremi là dove era già difficile raccontare di un impenetrabile groviglio indentitario tutto al femminile. È vero che per chi ama la morbidezza della lettura questo è un testo di qualità: ben scritto, ben orchestrato, misurato nell’unire la fascinazione alla riflessione all’effetto sorpresa. Però lasciamo che Sylvia Plath stia lì dove ha scelto di stare e che ognuno sia libero di portarsi dentro il suo dolore, il suo estremo dolore così come lei ha scelto di raccontarcelo. Di Esther Greenwood ricordo l’immensa pena che mi stringeva l’anima, di Cassandra Edwards ricorderò un dialogo lontano in cui lei mi dice che al matrimonio della sorella ci va anche se non ci vuole andare e io le rispondo “ok, tu vai lì, ma io intanto dove devo andare? Non c’è niente che mi trasporti qui.”

 

Dorothy Baker, Cassandra al matrimonio, Fazi Editore, pp. 256. Traduzione di Stefano Tummolini.

Comments


bottom of page