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Charles D’Ambrosio: come Carver, ma a colori

Raymond Carver ci ha insegnato che la vita di provincia americana vive di una sorda corposità e di contorni rifiniti e scolpiti nel silenzio. To carve, in inglese, significa “scolpire, cesellare”: Carver, in letteratura, ha finito così per significare cesellatore, scultore di scrittura. Non minimalista, bensì precisionista: eliminato dalla storia tutto quello che non è necessario, la pagina carveriana crea il suo posto di realtà con una materia narrativa che è tanto più potente quanto precisi ed essenziali sono i suoi confini.

Non so se è stato semplicemente questo o, più probabilmente, la frequentazione lunga e ripetuta della Carver Country del fotografo Bob Adelman a farmi intendere i racconti carveriani come situazioni sempre in bianco e nero: storia dopo storia, un album di scene di pesca, di cene e pranzi e dialoghi visti da una finestra, di viaggi su treni lenti, di divani e sedie e frigoriferi logori, di televisioni e radio accese di là, di jeans e camicie lasciati su un letto disfatto, di bottiglie vuote, di scene – appunto – in cui non c’è il colore, ma prevalgono i contorni in tratto nero e i silenzi come laghi bianchi tutt’attorno.

Paolo Cognetti diceva che la potenza del non detto dei racconti di Carver sta tutta nella domanda che si fanno i lettori la prima, la seconda, la terza, l’ennesima volta che leggono – un unico album, un’unica domanda – queste scene in bianco e nero tutte simili, eppure ognuna un po’ diversa: ma perché tutti i suoi personaggi bevono?

Perché i personaggi di Carver sembrano poter confessare la loro risposta alcolica appena fuori dalla scena in bianco e nero della pagina, quando infatti su quella pagina non ci sono più?


Raymond Carver sullo of Juan de Fuca, Washington. (1984)

Raymond Carver sulle spiagge dello Stretto di Juan de Fuca, Washington. (1984)


La risposta a questa domanda non può che arrivare – se deve – dall’altro lato del lago bianco di silenzio. Dall’altro lato dello Stretto di Juan de Fuca dove Carver compone di passi la sua personalissima scena in bianco e nero. Dall’altro lato della direzione: non il bianco e nero che cesella i contorni, ma il colore che quei contorni riempie. Colori che, guarda a caso, somigliano tutti alla gamma cromatica dell’acqua: dal nero dell’oceano lontano al verde del riflesso cristallino, dal blu delle nubi all’orizzonte al grigio della pioggia. La risposta d’acqua e di alcol è un’onda dello Stretto di Juan de Fuca sulla quale la protagonista del racconto La Punta di Charles D’Ambrosio proietta il suo buco nero.

Anzi, la risposta è il buco nero.


A una certa età, quando la giovinezza cresce fino inglobare nella sua ombra le sue stesse speranze, in ogni persona compare un buco nero. «Appena dietro le spalle delle persone e anche subito davanti» c’è un buco nero che risucchia ogni cosa, un «denso spazio negativo» di cui ogni persona è consapevole ma in cui non riesce a guardare dentro e, meglio, può non guardare dentro fintanto che si fa il culo, porta a casa i soldi, cresce dei figli, consuma la sua riserva d’amore, soppesa ogni pasto ogni mobile ogni bolletta ogni tradimento. Quando questo qualcuno si ubriaca, però, e magari barcolla fino a una spiaggia dell’Olympic Peninsula a fissare le onde che inesorabili portano verso l’uomo quel che egli cerca di tenere più lontano, allora il buco nero si spalanca e da dentro lo stomaco spinge fortissimo per venir fuori fino a vomitarsi.

Questo è quello che degli adulti ha capito Kurt, il ragazzino protagonista del racconto che apre la splendida prima raccolta dello scrittore di Seattle, Charles D’Ambrosio; ragazzino che trascorre l’estate riaccompagnando a casa (e spesso mettendo a letto, sotto le coperte) gli amici della madre che non hanno saputo tenersi al di qua della soglia della sbronza colossale durante una delle sue mondane e costose feste a La Punta, Washington. Stretto di Juan de Fuca. Lo stesso da cui partiva l’onda di Carver. La domanda di Cognetti. Il bianco e nero del perché.


Charles D’Ambrosio scrittore parsimonioso (finora ha pubblicato due raccolte di racconti e una di saggi ancora inedita in Italia) e poco cercato dai riflettori d’America (vive, come Carver con Tess Gallagher, nell’angolo più intimo e remoto degli States, il Pacific Northwest), è riuscito in un’impresa di pura grazia: colorare i silenzi carveriani pur mantenendone intatti i contorni. E, di più, alternare alla sorda disperazione delle scene di provincia americana momenti di cristallina e pura serenità. Momenti di cristallina e pura serenità che hanno a che fare con la musica, con delle patate bollenti messe nella stagnola e poi nelle tasche di un cappotto con il quale si andrà in giro per una Seattle innevata e notturna, con la pesca (l’aveva fatto anche Carver in poesia!), con il primo bacio, con un albero di Natale nella spazzatura.

Se è difficile immaginare una cosa del genere, se è difficile immaginare la grazia – ripeto – di un’operazione del genere, allora prendete Drummond e figlio, il secondo racconto de Il museo dei pesci morti. In un tempo in cui i racconti si compongono con il pc e si leggono su uno schermo, ci sono un padre e un figlio che, nel cuore della piovosa e introspettiva Seattle, riparano macchine da scrivere. Le riparano con la cura che si riserva alle cose belle ma anche utili, alle cose che devono tornare a funzionare e a fare bene il proprio lavoro. Il negozio di Drummond e figlio si trova davanti a una fermata del bus e, siccome a Seattle piove tanto, spesso nel negozio entrano persone in cerca di caldo e asciutto. Persone che, per ingannare l’attesa, iniziano a provare le macchine da scrivere lasciando tracce narrative su fogli bianchi che Drummond provvede a cambiare spesso. Qualcuno, qualche scrittore, entra anche per portare a riparare la propria macchina da scrivere e sempre dietro di sé lascia il racconto della sua ansia. Insieme, le storie degli scrittori e quelle degli avventori senza ombrello, compongono un unico album che Drummond sfoglia la sera prima di dormire trovandoci scritte sopra le infinite sfumature delle emozioni umane.


Charles D'Ambrosio
 

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