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Dacci oggi il nostro pop quotidiano

I tempi stanno cambiando e da queste parti ne siamo tutti felici. Il pop sembra aver invaso Sanremo (non capisco, tuttavia, la differenza lampante che trovate tra il pop di quest’anno e quello degli altri anni), le case editrici, i luoghi dell’istituzione culturale (soprattutto a Torino, la mia città, dove a prevalere è sempre stato un certo formalismo sabaudo spacciato per eleganza e appeso al soffitto in sontuosi lampadari d’epoca), le librerie, i canali d’informazione (non vi fa godere il ritorno della radio nella sua versione smart, il podcast?) e persino le chiese.

Il sabato sera i ragazzi sotto casa mia – mandrie di ragazzi – bevono birra sul sagrato e al termine di ogni loro sorsata, se solo spostano lo sguardo un po’ più in fondo, oltre le porte spalancate della chiesa e oltre la penombra delle navate, vedono Dio.

Mi sento simile al prete della chiesa del mio quartiere, sapete. Veneriamo due miti diversi – lui quello religioso, io quello letterario – ma lo facciamo allo stesso modo: prediligendo l’inclusione. Evidenziandola, manifestandola, sbattendola in faccia a chi passa anche quando sembra essere il momento meno opportuno. No barriere, no etichette, no distanze di cortesia, vediamo se contaminiamo che cosa succede.

L’ha fatta il postmodernismo, per primo, decenni fa, questa cosa: unire la cultura alta a quella bassa. Non stiamo facendo la rivoluzione oggi, abbiamo semplicemente incamerato la lezione e rivalutato un’idea: che la cultura è un’unione di tanti elementi diversi, alcuni ci fanno riflettere, altri ci fanno divertire, altri sono aperti a un’intenzione del momento, altri ancora sono talmente accattivanti che piacciono proprio a tutti, altri stimolano l’inventiva e la sperimentazione (anche la più difficile), altri infine sono d’ispirazione divina o di divina letizia. La pop culture funziona così: unisce aggettivi apparentemente lontani tra loro, unisce universi e individui apparentemente lontani tra loro, e pervade la quotidianità dei nostri esercizi mentali al pari del nostro ozio. Che sia per diletto o per insegnamento, dunque, lasciamo che il pop ci sia dato nella nostra salvifica dose quotidiana: il massimo che può succedere è che ci divertiamo.


Lo scorso novembre ero in un negozio ipertrendy di Fredericksburg, Texas (un giorno o l’altro scriverò dell’inaspettata meraviglia dello shopping texano), e ho trovato questo: uno dei quattro libri di

una collezione di guide infografiche di provenienza londinese dedicate alla letteratura, al cinema, allo sport e a “life, the universe and everything”. Tra le mie mani c’era il volume dedicato alla letteratura e potete immaginare la luce nei miei occhi mentre lo sfogliavo. Luce che, però, talvolta veniva adombrata da pensieri tipo: “sì, ok, ma cosa me ne faccio?”, “non posso comprarlo, dai, è carino ma inutile”, “forse meglio se risparmio per comprare [titolo a vostra scelta di letteratura texana che però sia anche di un certo valore letterario e professionale per i miei corsi, astenersi perditempo].”

Ok, io ho sempre patito un certo conflitto di interessi tra il dovere e il piacere e so che molti di voi hanno risolto questa battaglia interiore molto prima di me, eppure trovo sempre costruttivo permettere a me stessa di affilare la lama che deve scalfire il puro senso del dovere o del bello o dell’utile. Sono la prima allieva delle mie stesse prediche.

Quel giorno a Fredericksburg il libro l’ho comprato e adesso lo sfoglio spesso, divertendomi a scoprire cose che non conoscevo (non solo sulla letteratura americana, tra l’altro, high five!), a girare le pagine sottosopra per seguirne i disegni, a rispondere agli indovinelli, a dare un contesto pop a storie che conobbi in prima istanza in tutt’altra veste. Quella scolastica o universitaria, quella della storia come unico elemento importante e tutto il resto non importa.

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C’è un bellissimo aggettivo inglese che mi viene spesso in mente: lighthearted, che in italiano possiamo tradurre come spensierato o scanzonato e che – lo vedete anche voi – contiene in sé la leggerezza e la leggerezza che fa bene al cuore. Questo libro è così, inserisce la letteratura in un contesto spensierato e spalanca le porte alla comprensione di ogni storia che va ben al di là del singolo libro. Ancora meglio: spalanca le porte all’idea che ogni storia è tale solo se intorno a lei c’è tutto il resto. Il taglio di capelli del suo autore, la ricerca del nome del personaggio principale, le ore di lavoro che l’hanno fatta nascere, i premi che non ha vinto, i simboli su cui si costruisce, il dharma il beat e l’on the road, il tempo meteorologico che la caratterizza, i giorni di prigione in cui è stata concepita, i cocktail in corpo e le citazioni sulla bocca dei personaggi.

Il piacere di avere queste porte spalancate non sostituisce quello della lettura dell’opera in sé, certo. Ma, del resto, quale vero piacere richiede la rinuncia, il sacrificio di una cosa in favore di un’altra? Nessuno. Neanche quello divino, sostiene qualcuno da queste parti.

 

Joana Eliot, Infographic Guide to Literature, Octopus Publishing Group 2014, 160 pagine.

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