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Del deserto di Rick Moody: un romanzo e un racconto

Qualche giorno fa era il compleanno di uno degli scrittori americani più amati dai giovani rockettari di questo mondo pop, Rick Moody. Incarnazione dello spirito brooklyniano insieme ai colleghi Jonathan Lethem e Paul Auster (tra i più famosissimi), Moody nei suoi libri di Brooklyn racconta ben poco. Così come ben poco c’entrano, a parer mio, la sua amicizia (?) con David Foster Wallace (pare che se non sei stato amico suo i recensori non sappiano come altro giustificare la tua – meritata – fama), il riflesso accecante dell’ingombrante postmoderno (lasciamo in pace i morti?) e la politica, tutti elementi che potrebbero essere lasciati in sospeso quando è ora di avvicinarsi alla sua opera.

Per quanto ho letto io di Rick Moody, i tre elementi che userei per collocarlo nella grande favola del romanzo americano contemporaneo sono:

  1. il cappello,

  2. il deserto,

  3. l’apocalisse.

Il cappello è il suo segno distintivo, raramente si trova in rete un suo intervento o una sua foto a testa scoperta: che sia per dare visibilità al suo carattere originale, che sia per evitare che le idee se ne volino via, che sia – ancora – perché ha qualche sponsor che lo obbliga a costruirsi un personaggio, un’immagine distintiva da consegnare al pubblico (molto poco probabile, gli sponsor cacciano tennisti, non scrittori), il cappello di Rick Moody rappresenta per me la sua dichiarazione di poetica. Comodo, riconoscibile, vagamente retrò ma estremamente pop, che fa ombra ma lo rende simpatico, che tiene al caldo i pensieri ma valorizza il sorriso, il cappello di Rick Moody è come la sua scrittura, è come il suo grande, unico, racconto sull’uomo, il futuro, il passato e il possibile: comodo, riconoscibile, retrò e pop, ombroso ma ironico, raccolto ma vitale.


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Gli altri due elementi, il deserto e l’apocalisse, sempre intrecciati fra loro come tradizione insegna, li ho individuati grazie alla lettura di due sue opere opposte: Le quattro dita della morte e La James Dean Garage Band. Rispettivamente, un romanzo di novecento pagine e un racconto di trenta, un romanzo sul futuro possibile e un racconto sulle possibilità del passato se solo non fosse andata così, una distopia post-postmoderna (aaaah!) e una scivolata spassosa nella pop culture.

Le quattro dita della morte, un libro dal titolo a parer mio terribile (così anche in originale), è un testo che ho avuto modo di conoscere molto bene, riga per riga, immagine per immagine. Se ne è stato sul tavolo di casa mia per qualche settimana, mentre io e l’autore si vagava insieme nel deserto di Marte e in quello dell’Arizona.


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La storia è questa: uno scrittore incastrato nella melma della mediocrità e dell’insuccesso, tale Montese Crandall, vince a una partita a scacchi l’occasione per dimostrare alla moglie malata di saper scrivere un grande romanzo, un’opera più lunga ed elaborata dei suoi consueti racconti minimali e un po’ opportunisti di una riga sola. Il romanzo che scriverà e che viene a suo nome presentato nelle successive ottocento pagine del libro di Moody è La mano strisciante, un remake in forma letteraria di un B-movie horror del 1963. Un B-movie che dovrà fornire a Crandall la rivincita su uno scarno conto in banca fatto di reading a cui non assiste mai nessuno e scambi tardo-adolescenziali di figurine di giocatori di baseball, tra cui spicca quella di Dave McClintock, il campione famoso per essersi rotto il braccio e averlo sostituito con una protesi meccanica. Fine dell’introduzione. I due “libri” seguenti sono ambientati nel 2025, epoca del futuro prossimo in cui gli Stati Uniti hanno perso la loro egemonia perché scalzati da Cina e India ma la vogliono assolutamente riaffermare mandando nove astronauti per tre anni su Marte. Qui inizia l’avventura, di cui potete sbirciare ancora qualcosina sulla scheda dell’editore Bompiani oppure gustarvi serenamente leggendo il libro.


Quello che io – brevemente – vi dirò è che su Marte, il deserto rosso e arido dello spazio, l’uomo viene messo a tacere, uno a uno, buoni e cattivi, uomini e donne, e il silenzio che emana da questa progressiva caduta dell’umano è inversamente proporzionale all’indicibile casino che fanno gli astronauti sul pianeta rosso e poi gli altri protagonisti nel deserto dell’Arizona per sopravvivere e sconfiggere il male. Rick Moody ritrae una società schizzata e deforme messa in pericolo da un altrettanto schizzato e deforme braccio con quattro dita scappato dallo spazio e atterrato nel deserto terrestre, e l’apparente assurdità di questa trama è compensata dall’enorme sensibilità (e comicità) con cui l’autore ci racconta le reazioni umane, l’inutilità delle parole a meno che non vengano dette da uno scimpanzé (con il quale infatti Moody si identifica), il correre in tondo della scienza in tema di apocalisse (appunto) e le somiglianze tra sentimenti umani e assordanti fuochi d’artificio – o detriti spaziali, quando va male. Come detto nel titolo dell’intervista a Rolling Stone a cura di Massimo Rota del settembre 2012, in questo romanzo:

si gioca alla fantascienza, si omaggia Kurt Vonnegut e però si ride.

Di certo non il suo romanzo meglio riuscito (per me si poteva chiudere al libro primo e secondo il New York Times pure, non riesce a tenere bene il ritmo ironico per tutta la sua lunghezza), Le quattro dita della morte sono però una bellissima esperienza di lettura e per ogni dito dei quattro c’è da ridere, da ascoltare, da correre e da interpretare.


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L’illustrazione di Oliver Munday contenuta nella recensione del libro sul New York Times.


Di tutt’altra pasta narrativa è La James Dean Garage Band, un breve racconto contenuto nell’omonima raccolta pubblicata da minimum fax nel 2005, a dieci anni di distanza (!) dall’originale negli Stati Uniti. Descrizione iniziale: James Dean non muore nell’incidente in cui in realtà muore, ma sopravvive e scappa, solitario e ferito, nel deserto della California cercando di lasciarsi alle spalle la fama e costruirsi una nuova vita. L’occasione perfetta gli si presenta qualche miglio più tardi, vicino a una pompa di benzina dove tre ragazzini figli del disagio della provincia americana, rinchiusi nel loro garage che in realtà è un rifugio antiatomico come tanti ce ne sono lì nel deserto degli anni della guerra fredda, cercano di fare un po’ di musica e darsi una ragione di vita. James Dean arriva, prende in mano una leggendaria Telecaster e cambia le vite di tutti e quattro per sempre.


Non c’è niente da dire su questo racconto perché è esattamente quello che tutti voi ora vi state immaginando: sì, è esattamente così intrigante; sì, è esattamente leggendario come i personaggi di cui racconta; sì, va benissimo definirlo rock’n’roll perché ci sono gli anni Cinquanta, c’è la Fender, i beatnik, i divi, i locali con i soliti quattro biker che bevono whisky al bancone, le risse, le grandi speranze, la ribellione, la Porsche, la solitudine delle famiglie imperfette, la gioventù bruciata, la musica nei garage, la colla da sniffare; sì, è esattamente così mitologico perché Rick Moody, con una apparente magia, scrive per filo e per segno il racconto che la nostra sete di pop culture ci ha sempre fatto girare in testa e ci fa tirare fuori ogni volta che muore una grande rock star: potrebbe essere andata diversamente e sarebbe stata ancora più grande.

Suonavamo finché le prove non traboccavano fuori, sugli ettari di vuoto che circondavano il rifugio antiatomico, e ci mettevamo a correre – ai quattro venti – nella notte, alla ricerca degli angeli che non venivano mai a salvarci. Alla ricerca dell’entità che ci sollevasse e trasportasse via dal proletariato e via dal buco di paese in cui eravamo cresciuti. Sì, la band ci aveva cambiati. La fama di Dean ci aveva contaminato, e il nostro anonimato aveva contaminato lui. Non eravamo intimi, noi quattro; non facevamo discussioni sentite, non eravamo tipi da rivendicazioni maschili, però in quelle notti ci riunivamo là fuori tra la salvia e accendevamo fuochi di mitologia del deserto e aspettavamo segni.

Buona lettura.

 

Rick Moody, Le quattro dita della morte, Bompiani 2012, pp. 912 | 🛒 Acquista su Ibs.it

Rick Moody, The James Dean Garage Band, minimum fax 2005, pp. 176 | 🛒 Acquista su Ibs.it

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