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Il lato sbagliato del ponte | Brooklyn

Per lavoro qualche giorno fa sono stata sollecitata a pensare a New York. Per lavoro mi è stato chiesto di parlare di New York, di trovare un modo di raccontarla e presentarla, di trovare parole mie e di altri per descriverla. Per lavoro è davvero una cosa seria, perché se tutti i giorni per me New York è un sogno che vive di vita propria e io gli vado dietro in una scia di libertà, caos, e good vibes, improvvisamente ho dovuto pensare di sgretolare quel sogno e ricomporne alcuni pezzi in una cosa concreta, di facile e sensata trasmissione, sana.

Allora, come un campanello alla porta del mio inconscio, mi sono ricordata di New York è una finestra senza tende, il bellissimo racconto di Gotham (un altro nome per NYC) scritto da Paolo Cognetti, letto da poco e da poco posato a prendere polvere di fianco al lettore dvd, un posto dove di certo io non tengo i libri. Perché diavolo lo avevo messo lì? Il campanello ha suonato due volte e io mi sono ricordata di averlo abbandonato in mezzo a cd inutili di musica country perché non avevo affatto finito di consumarlo, la sua lettura era rimasta incompiuta: l’edizione Laterza di questo libro prevede, infatti, che il lettore prima o dopo il racconto delle parole si goda anche un racconto di immagini, un documentario su Brooklyn, appiccicato in forma di dvd in una bustina di plastica trasparente nel retro della quarta (che forse si chiama terza).


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Il documentario si chiama Il lato sbagliato del ponte, è stato scritto e realizzato da Paolo Cognetti medesimo e Giorgio Carella nel 2006, è stato prodotto da minimum fax media (e infatti c’è Marco Cassini “on stage”) e ha come protagonista Brooklyn, il lato del ponte che non porta a Manhattan ma da cui a Manhattan si guarda, il distretto della città che è rappresentazione reale di idee confuse come la differenza, lo scarto, l’errore, la varietà, il grezzo. Se il soggetto del documentario è dichiaratamente Brooklyn, un altro protagonista tuttavia presto si svela e veloce si prende se non tutta quasi tutta la scena: la scrittura. La scrittura dello spazio brooklyniano.

Espediente narrativo del documentario che altro non è che una storia per immagini, racconto di un soggetto che in quanto spazio diventa trama, rifrazione immaginaria della realtà doppiata dalla finzione della narrazione: qualunque sia il vostro canale destrutturalista preferenziale, per Cognetti e Carella Brooklyn si presenta come un quinto elemento fatto di realtà e finzione insieme, che prende forma da parole che si specchiano in strada, da racconti che si riflettono su edifici, pozzanghere, parchi, librerie e binari di treni in disuso, da storie che sono la storia unica e personale di chi la vive e chi la abita.


In questo caso quattro scrittori: Jonathan Lethem, Rick Moody, Shelley Jackson e Colson Whitehead. Conosco bene i primi due, meno gli altri. Ognuno di loro è in movimento, cammina e chiacchiera per le strade di Brooklyn rispondendo a un canovaccio che mi sono divertita a ricostruire (senza alcuna pretesa di realtà, solo per il divertimento di mettermi anche io dietro la telecamera), un canovaccio su cui andare a braccio – questo risulta chiaro – ma rispettando alcune tappe/domande fondamentali, che non vengono fatte in scena, ma si capisce che in qualche modo sono arrivate agli scrittori a cinepresa spenta:

  1. cos’è per te Brooklyn?

  2. cos’è Brooklyn in relazione a Manhattan?

  3. qual è il paesaggio di Brooklyn, se ne esiste uno?

  4. che relazione c’è tra la tua scrittura e i luoghi di Brooklyn?

  5. che relazione c’è tra la tua vita e i luoghi di Brooklyn?

  6. che relazione c’è tra l’America e Brooklyn?

  7. dove vai per scrivere?

  8. come scrivi di Brooklyn nei tuoi racconti?

  9. perché Brooklyn e non un altro posto?

E questa è, in fondo, la domanda portante di tutto il documentario: se New York non è Manhattan, come spesso la vulgata turistica e mediatica vuole, allora può essere Brooklyn? E se sì, perché? La risposta che più mi ha convinto è stata quella di Lethem, autore di uno dei libri più belli della storia della letteratura americana proprio su Dean Street, la sua fortezza della solitudine, la sua strada di Brooklyn, sua ma condivisa con adolescenti, supereroi, droghe e tanta musica jazz. Lethem dice che Brooklyn contiene le differenze e dà loro forma e possibilità, dice che c’è un senso di realtà tra le sue strade che è completamente assente tra quelle di Manhattan ed è proprio questo senso che trasmette la giusta idea, la giusta misura di cosa sia davvero l’America. Brooklyn è la giusta rappresentazione dell’America perché – secondo Lethem – dà spazio ai contrasti e alle distanze che caratterizzano la sua società, senza aver subito un processo di raffinazione bensì trovandosi ancora allo stato grezzo, vero, della spontaneità genuina e non trattata.

E poi sostituisce all’ostentazione, tipica di Manhattan, la segretezza delle cose preziose: uno dei momenti più sorprendenti del documentario è quando la barriera dei palazzi, dei brownstone tipici di Brooklyn, viene bucata e ci si ritrova seduti con Marco Cassini e Jonathan Lethem in uno spiraglio quasi mistico di colore verde, a forma di cortile, con una signora che rientra in casa dal balcone, un altro signore che scende da una scala antincendio, le piante che invadono i giardini comunicanti degli inquilini, le terrazze, i tetti e le antenne. E la voce di Lethem che dice sì, noi abbiamo sempre vissuto in questo tesoro, è quello che non si vede ma che tutti gli abitanti di Brooklyn sanno che esiste.

Ed è così che anche la drammaturgia del documentario vuole descriverci Brooklyn, alternando alle parole chiacchierate dei quattro scrittori – le esplicite – quelle scritte delle loro opere – le nascoste: interi brani vengono infatti letti dagli autori come voci fuori campo, capaci di armonizzare le suggestioni reali che scorrono sullo schermo con quelle narrative delle loro storie.


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E se infine Brooklyn è un distretto particolare e significativo di New York come mai ce l’eravamo sognato, così lo è anche la fotografia che Cognetti e Carella hanno scelto per le immagini che la devono raffigurare: il caldo, il giallo, l’arancione, il mattone, atmosfere che io mai e poi mai avrei pensato di scegliere per evocare uno spirito urbano come quello brooklyniano, ma che poi sono andata a recuperare le foto che avevo scattato nel mio viaggio di scoperta di Brooklyn e ho ritrovato uguale in quelle che sono sparse in questo post.

Ancora una volta, allora, lasciamo che le tende si tolgano da sole e che al loro posto entri la sorpresa di una luce di cui non sospettavamo l’esistenza.

Buona visione.

New York è una finestra senza tende, Paolo Cognetti (2010), Laterza collana Contromano, pp. 152 > il dvd è qui dentro.

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