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Io l’avrei intitolato Apocalypse Right Now

Non vi chiederò di finirlo in lacrime come è successo a me. Non vi chiederò neanche di finirlo, per ora. Ora vi chiedo semplicemente di leggere una storia. Questa storia. E prima ancora di rispondere a una domanda, se potete: dove eravate la notte delle ultime elezioni presidenziali americane? La notte dell’8 novembre 2016, quella che si concluse solo nelle prime ore del 9 novembre (11/9, all’americana), annunciando che Donald J. Trump sarebbe diventato il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti?

Non ve lo ricordate? Certo, quella notte interessava molti ma non tutti. Quella notte in Italia probabilmente si dormiva e, anche se il risveglio fu traumatico per molti, non lo fu tanto quanto il mattino del 9/11, quell’Undici Settembre che adesso scriviamo maiuscolo perché il mondo da allora non è più lo stesso. Quell’Undici Settembre di cui tutti, tutti nessuno escluso, ricordiamo qualcosa.

Io me lo ricordo dov’ero, la notte delle ultime elezioni presidenziali americane. Ero a Terlingua, una ghost town texana al confine con il Messico, e non riuscivo a parlare. Non riuscivo a parlare – per molto tempo non ci riuscii – e piangevo. Ringrazio di non essere stata da sola, quella notte, e di aver potuto condividere silenzio e lacrime con una persona che stava cercando di venire a patti allo stesso modo e nelle stesse ore con il suo personale sgomento. Non abbiamo parlato per ore, giorni, settimane.

A un certo punto io ne scrissi, qui, una pagina di diario. Una risposta alla domanda: e ora cosa si fa? Un risveglio.

E poi, dopo tutto quel silenzio, d’improvviso subentrò il clangore, subentrò l’attualità, le mie parole si persero in un fiume di parole altrui quotidiano, incessante, scandaloso, social, fake ma anche true, indignato, capslock, sanguinante, dissacrante, nazista, impotente, feroce, complottista, apocalittico, disperato, combattivo, collettivo. Stiamo gridando tutti insieme da mesi, ed è difficile fare qualcos’altro. È difficile ascoltare, farsi ascoltare, dire qualcosa di significativo. È impossibile persino credere in qualcosa di significativo, rinnovare il rapporto tra parole e silenzio che c’era prima dello shock di quella notte, sentire bruciare la propria coscienza per qualcosa che sta andando nella direzione sbagliata, percepire l’apocalisse del nostro presente.

Mi piace pensare che sia questa la spiegazione che sta dietro il titolo dell’ultimo film di Michael Moore, Fahrenheit 11/9: un film – esso stesso definito da una scarica di aggettivi apocalittici – che in realtà cerca di riportare le nostre coscienze al concetto di sentire, percepire, to feel. L’apocalisse sta accadendo proprio ora ma arriva da lontano e purtroppo non porterà altrettanto lontano.

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Alcuni toni, modi e anche pensieri di Michael Moore a volte mi sono sembrati esagerati ed estremizzati. Questo film non fa eccezione. Eppure, mi è bastata una sola visione per sentire il clangore dell’attualità sfumare in sottofondo e il caos acquisire finalmente una forma. Come prima cosa, Michael Moore ascolta, va fisicamente dove accadono le cose e si mette in ascolto: chiede, ragiona, risponde, pensa. Dà credito a chi gli sta di fronte ed è così che i dialoghi di questo film recuperano la dimensione umana (il mio preferito, quel diner di un paesino minuscolo del West Virginia, fuori nevica, dentro il democratico Richard Ojeda racconta la sua lotta elettorale, i suoi ideali, la sua rabbia, la sua America). Poi, come fosse un narratore di vecchie storie, Moore diventa una voce fuori campo, lega i fatti uno all’altro e porta i nostri occhi su dettagli che non avevamo visto, nonostante fossero sempre stati sotto i nostri occhi: dalle convention dei partiti durante la campagna elettorale alla vergognosa storia dell’acqua di Flint in Michigan, dai reperti storici del Nazismo alle proteste degli insegnanti, dai camerini di Miss America ai volantini che Alexandria Ocasio-Cortez distribuisce a New York porta a porta, dalle parole di Trump alle promesse di Obama ai silenzi di Emma González.

Oh, Emma González.

Più forte dei montaggi di Moore regista, più forte delle sue azioni provocatorie, più forte di ogni rimostranza democratica e di ogni rimprovero repubblicano, più forte di ogni indignazione di noi spettatori, più forte delle nostre paure, più forte di qualsiasi grado Fahrenheit, più forte di tutti e di tutto è il silenzio di Emma González.

Sei minuti e venti secondi di silenzio: morte e rinascita, apocalisse e futuro, paura e coraggio, il bene e il male, solitudine e collettività. Emma González, 18 anni, una sparatoria a cui è sopravvissuta forse per cambiare il mondo. E non il mondo di alcuni. Il mondo di tutti.

Silenzio e lacrime, di nuovo.

Tutte le parole d’elogio rivolte a questo film sono meritate. Tuttavia, il merito più grande di Michael Moore, secondo me, è aver identificato il fuoco sacro dell’apocalisse, aver fatto convogliare – o forse deragliare – tutte le voci – tutte quelle voci, quelle parole, quel clangore – nel silenzio finale di Emma González. Di averci fatto recuperare il senso perduto delle parole attraverso il sangue di un sacrificio che stanno pagando pochi ma lo stanno pagando per tutti. Di averci fatto piangere vedendo i più giovani lottare nel silenzio per il silenzio. Di averci fatto sentire uniti in qualcosa che non ha nome perché è più grande di noi. E anche di avermi riportato là dove qualcosa si era spezzato.

Arrivate fino alla fine, quindi. Ora ve lo chiedo.

 

In Italia il film è stato proiettato al cinema solo 3 giorni lo scorso autunno. Oggi esce in dvd e Blu-Ray distribuito da Koch Media per Lucky Red. Compralo su Ibs.it.

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