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L’estate di Ray Bradbury: per me un “ciao”, per lui un “addio”

Questa sera ci sono solo io. Finalmente, di nuovo nel mio.

Come le canzoni che nascono in levare e puntano dritto verso una melodia che sta in alto, ogni tanto succede che alcune bellissime esperienze della vita ti facciano tenere lo sguardo rivolto esclusivamente verso l’esterno – le pupille a squadrare l’intorno, lo sguardo a incrociare quello degli altri, le sopracciglia a rafforzare il sorriso, a volte anche il naso ad arricciarsi di contentezza – e lì lo tengano a lungo, prima che – inaspettatamente e liberamente – questo decida che vuole tornare a puntare verso l’interno.

Verso il mondo di dentro.

A causa di un evento inaspettato e apparentemente privo di conseguenze che mi ha colto totalmente alla sprovvista, lo scorso lunedì mi è piombato addosso un ricordo di coscienza, un ricordo umorale ed emotivo di quelli che si percepiscono con la pelle e restano indefiniti nella loro densa nebbia di panna finché qualcuno non lo capisce e allora lo chiama malinconia. Questo ricordo, dicevo, mi portava un messaggio: mi raccontava, di nuovo come allora, che il mio mondo di dentro è fatto di mare, di famiglia, di melodie che partono sì in levare ma poi si sciolgono nella rassicurazione di un canto già cantato, di estate, di brezze del sole e del vento, di acqua roccia e sale.

Mi portava un messaggio interiore che ha a che fare con un posto di questo mondo che per me rappresenta la serenità, l’assenza di ansia e di aspettative, la calma, la compagnia, l’eterno perpetrarsi della pace. Che ha a che fare, infine, con la mia fanciullezza, mai come oggi che sono adulta intesa in senso anche interiore.


Per una bella e goduriosa coincidenza, questo messaggio è arrivato sì sotto forma di ricordo emotivo ma anche nella forma ben meno emotiva e più concreta di un libro: Addio all’estate di Ray Bradbury. Ovvero – in una frase – il racconto della lotta dei fanciulli di un paesino dell’Illinois chiamato Green Town contro i vecchi e gli adulti per fermare il Tempo, per bloccare l’orologio che fa venire fame, poi cambiare il tuo corpo, poi perdere la spensieratezza, poi litigare, poi svanire i sogni, infine morire.

Douglas, l’alter ego bambino dell’autore presente nel prequel di questo romanzo, L’estate incantata, e in moltissimi dei suoi scritti (racconti e poesie) paralleli e complementari alla produzione più fantascientifica, non vuole entrare nel mondo adulto, non vuole smettere di correre dietro alla propria spensieratezza di colore verde come le colline del suo paese sul lago Michigan, non vuole ascoltare i battiti che dall’orologio del municipio risvegliano e addormentano gli altri abitanti del suo paese ogni giorno, non vuole che l’estate diventi autunno e volga così al suo inevitabile termine.

Lottando scenicamente per avere anche solo un filo di vantaggio sull’inevitabilità del tempo, mentre combatte contro i vecchi e sabota l’orologio, mentre spiega al fratellino Tom e agli altri amici perché è così importante non comunicare con il mondo adulto al fine di preservare la bellezza del loro, quello che narrativamente fa Douglas è includerci nel suo cerchio di amici e riportarci indietro – senza invito ma, appunto, rincorrendoci fin quasi alla calcagna – alla nostra fanciullezza. Al crepuscolo incerto della nostra ultima estate da ragazzini, prima che quel qualcosa che neanche noi sapevamo cosa fosse ma capivamo che era qualcosa cambiasse per sempre.

Ho sempre provato antipatia per Peter Pan e ho sempre mal tollerato i libri raccontati dal punto di vista dei bambini: per me Molto forte, incredibilmente vicino e l’Isola che non c’è sono due mondi finti, in cui la riappropriazione dell’innocenza è funzionale al solo fatto che tu, adulto, sei perfettamente cosciente di averla definitivamente persa. Per Douglas, invece, per la sua rincorsa verso l’eternità dell’innocenza, ho provato simpatia, ho sentito dolcezza.


Dandelion Wine

Una delle cover americane de “L’estate incantata”


Bradbury scrisse questo libro 55 anni dopo l’acerbo prequel, quando ormai era anziano. Viveva lontano da Waukegan, il paesino dell’Illinois sulla riva del lago che nella fiction divenne Green Town, e secondo me, una volta rimessosi in connessione interna con la radice del suo io dopo che gli anni più intensi nel mezzo erano sfumati via, di quel paese, di quel ragazzino che rincorreva l’estate per evitare che finisse aveva nostalgia davvero. Non lo guardava dall’alto del vecchio al basso del ragazzino, ma si accovacciava alla sua altezza e gli chiedeva: “Ma tu ti stupisci sempre il mattino quando ti svegli? Perché io sì, e l’ho imparato da te.”

È questo che allora scopro essermi ricordata sulla pelle dopo lunedì, quel legame tra un luogo, l’infanzia e una parte di te che mai e poi mai si può permettere all’orologio, alle esperienze e agli altri di portare via: la libertà di scoprire il mondo e di stupirsi che ogni giorno lui sia lì per te. La libertà, per me, di approcciarmi all’arrivo di questa estate e salutarla come se fosse mia madre che è venuta a prendermi a scuola, il primo giorno di scuola.

La sorpresa è tutto per me. Quando la sera vado a letto, raccomando a me stesso di svegliarmi la mattina dopo pieno di stupore.
 

Ray Bradbury, Addio all’estate, Mondadori 2013, pp. 168. Traduzione di Giuseppe Lippi.

PS: La sua dolce positività è contagiosa, vero? Io sono certa di sì. Ho avuto modo di scoprirlo quando ho raccontato una storia di Ray Bradbury al laboratorio di illustrazione Let’s Draw di Ilaria Urbinati e ho visto i disegni che ne son venuti fuori; avrò modo di vederlo tra qualche giorno sulla faccia dei primi Book Riders quando andremo proprio nella Green Town di oggi in questo parco quaggiù sulle rive del lago 🙂


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