Credo sia la mia incapacità di leggere i graphic novel, unita alla vena malinconica che mi prende ogni volta che mi devo staccare da qualcosa, a far sì che io abbia scelto il fumetto della Dalia Nera per chiudere il corso sulla CALIFORNOIR. Come a dire: adesso stiamo qui a contarcela per ore, cari compagni di viaggio che mi avete seguita per due mesi, stiamo qui a contarcela per ore su qual è più bello, se il libro originale o le tavole, se la storia intrecciata e cavalcante di James Ellroy o i disegni classici e caldi di Miles Hyman. Tanto quello che a me importa è che voi non ve ne andiate, il dilemma può restare irrisolto forever.
Quando scrissi il programma del corso, lo scorso settembre, il fumetto della Dalia Nera l’avevo inserito nell’ultima lezione senza però – e scusate se lo confesso solo adesso ma sapete che sono una maestra sincera solo in ultima istanza – averlo letto. Ho recuperato di furia in questa settimana pensando che in fondo ero stata una buona tesoriera di letture se inconsciamente avevo lasciato per dessert la più contraddittoria delle sorprese.
Come già sperimentato qualche mese fa e come detto in apertura, io con i graphic novel ho un rapporto apparentemente incompleto: non avendo divorato fumetti da ragazzina sento che mi mancano le basi, non sapendo disegnare sento che mi manca l’intuizione, non avendo avuto dei maestri non so a cosa prestare attenzione per primo. In questo elenco di non, l’ultimo è che sento di non poter dire molto su un graphic novel senza affidarmi, mio malgrado, al confronto.
E così ho fatto anche questa volta.
Fumetto vs romanzo.
Un confronto perso in partenza e che adesso vi spiego che cosa mi ha fatto.
La storia della Dalia Nera, quella originale, è nota e inizia nella realtà vera: il 15 gennaio 1947 Elizabeth Short, una ventiduenne originaria di Boston, viene trovata morta, eviscerata e tagliata in due pezzi in corrispondenza della vita a Los Angeles, tra la 39esima e Norton. Il colpevole non viene mai catturato, il caso rimane irrisolto e, anni dopo, il fatto sposta il suo peso essenziale fuori dalla cronaca nera e dentro l’oscurità della coscienza umana, diventando l’ossessione dello scatenato scrittore losangelino James Ellroy. Quando sua madre viene misteriosamente uccisa con una corda e una calza in un altro angolo della città degli angeli nel 1958, infatti, l’allora ragazzino James unisce le due donne in un’unica figura di morte, sensualità e attaccamento, un’unica figura di redenzione, mistero e colpa a cui promette di rendere onore scrivendo un romanzo di cui sarà protagonista. Trent’anni dopo, nel 1987, con già sei romanzi all’attivo e un decennio di perdizione, droga ed eccessi alle spalle, Ellroy pubblica il suo The Black Dahlia inaugurando così il quartetto di Los Angeles (seguono, infatti, Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz) e la sua carriera di eroe tragico-romantico della scrittura noir contemporanea.
Il romanzo è stupendo: al di sopra della sporcizia che abita Los Angeles negli anni Quaranta e che contamina fino al più puro degli individui, al di là della giustizia che non conosce distinzione di buoni e cattivi, oltre la corporalità spezzata dalla violenza e dalla menzogna, Ellroy racconta, con stile metanfetaminico, furioso ed essenziale, le conseguenze drammatiche di un’azione immorale, racconta la compassione per una vittima e per chi ne cerca i colpevoli, racconta la spietatezza dell’ossessione come tema tragico. Molto complesso nei primi tre quarti, scioccante nell’ultimo, Dalia Nera è un’opera che unisce il tragico allo storico e anche al postmoderno e dà origine, con un pennello tagliato di netto alla radice, a una nuova tinta di noir.
Per rendere onore all’autore e rispettare la sua idea sull’argomento, però, bisognerebbe fare un passo indietro e considerare una rivoluzione estetica già avvenuta: il noir è morto o, meglio, il noir è un concetto prettamente cinematografico che riguarda lo stile; hard-boiled è il termine giusto da applicare alla letteratura di genere ed è un concetto che riguarda il linguaggio.
Ok. Ma se stile e linguaggio hanno i loro corrispettivi estetici nel cinema e nella letteratura che cosa ne è allora del fumetto?
Il fumetto, disegnato da Miles Hyman secondo i canoni del noir classico e usando sempre lo stesso colore ambrato più chiaro o più scuro, più o meno vivo a seconda dei momenti narrativi, è l’espressione di una sottrazione: all’azione drammatica, al pathos dinamico, alla costruzione ascendente del romanzo che sale progressivamente di grado per i primi tre quarti di storia ed esplode nell’ultimo, il graphic novel sostituisce la contemplazione, la ritrattistica, i primi piani, la squadratura statica dei corpi, le pose. Con un effetto potente e – come accennavo in apertura – sorprendente: per quanto siano evidenti e persino fastidiosi i tagli nella trama, per quanto sia spiacevole sentire che lo stile narrativo ellroyiano è stato evidentemente falciato e per quanto il lettore si senta in diritto di preferire (e di ribadire a se stesso di preferire) ad ogni pagina la storia romanzesca, il graphic novel agisce come un mezzo indipendente e mette in atto delle pratiche proprie. Il giallo ocra/ambra/grigio/arancione delle tavole assorbe senza avvertire; le linee degli abiti dei personaggi o, ancor più, dei loro nudi ipnotizzano; la prevalenza della statica sulla dinamica si trasferisce anche fuori dai disegni e diventa modus legendi; parole grida suoni ed emozioni si staccano dal mondo sonoro ed entrano in quello visivo diventando aloni, chiaroscuri, fasci di luce e zone d’ombra.
David Fincher e suo fratello Matz hanno lavorato sulla sceneggiatura del fumetto graziati dall’approvazione di James Ellroy. Miles Hyman ha fatto sua l’estetica classica del fumetto noir e l’ha applicata al primo romanzo della contemporaneità che ha rivoltato quella stessa estetica nel suo contrario. Il lettore è stato spiazzato dall’incongruenza delle due forme per poi accorgersi che tale ovvia incongruenza si chiama arte e che ogni forma ha la sua.
Non devo avvalermi di nessun gioco di parole per rispondere a quella domanda lassù. Esiste già un termine perfetto per definire il graphic novel e quel termine è giallo. Giallo, un concetto che, guarda un po’, ha a che fare con il colore.
Buona lettura.
David Fincher e James Ellroy
Miles Hyman, Matz/David Fincher, James Ellroy, Dalia Nera, Einaudi 2014, pp. 174.
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