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La magia gialla di Los Angeles raccontata da Chuck Rosenthal

Questo è un libro molto strano.

Un libro strano che ho letto nel momento giusto: dopo Americani di John Jeremiah Sullivan, una raccolta di scritti che mi ha dato la possibilità di conoscere nuove forme di reportage narrativo e di giornalismo culturale rispetto a quelle che già conoscevo; dopo l’analisi della surreale diatriba tra James Franco e Lindsay Lohan, che invece mi ha portato a studiare i profili labili e sempre più sfumati di realtà e illusione in quel contesto americano tanto immaginario quanto concreto che è Hollywood; dopo (e mentre), infine, mi abbandonavo a un personale reportage postnostalgico proprio sulla California.

California, ovvero Hollywood, ovvero Los Angeles, ovvero: A Ovest dell’Eden. Accendiamo i riflettori del paradiso, cari lettori, e rimbalziamo tra metafore, incantesimi e nonsense in un gioco che più che gli specchi chiama in causa – a parer mio – il movimento e la danza.


Non ho mai scritto di danza ma so usare le metafore e, se questa lettura è una danza, allora sappiate che stiamo ballando su un palco che non è quello della narrazione tradizionale ma piuttosto quello della non-fiction. Lo dice anche il sottotitolo in copertina: “cronache”. Stiamo ballando su un palco stroboilluminato, con i piedi ben fissi sul piano della realtà ma verso una direzione ignota e stroboalterata. Stiamo ballando in coppia, i piedi saltellano e atterrano sempre sulla stessa solidità del pavimento, la testa invece guarda in alto e svolazza; il ballerino, ovvero colui che conduce e fa da garante delle figure, è il classico giornalista a caccia di fatti ma la ballerina, ovvero la grazia, la personalità, la parte fantastica e sinuosa dell’esercizio, tra un fatto e l’altro, racconta la magia all’orecchio di lui e insieme, giornalista e maga, costruiscono una lingua e un’armonia del movimento. Lo dice anche il sottotitolo in copertina: “magiche”. Armonia e lingua magiche. O anche: cronache magiche.

In quel set ideale che è Los Angeles, sineddoche di un’America in cui non è la realtà ad essere un’illusione, come vorrebbe la più classica delle teorie sul velo di māyā, ma l’illusione è realtà, Chuck Rosenthal, scrittore poco conosciuto in Italia che di mestiere usa la parola anche per insegnare all’università e narrare romanzi, ambienta un saggio di “magic journalism”, ovvero un genere letterario che è la derivazione postmoderna dell’incontro tra fact e fiction, tra – appunto – realtà e illusione (o finzione):

Il giornalismo magico prevede la relazione labile fra gli eventi e l’atto di scriverne. In un saggio di giornalismo magico la realtà si insinua in voi fino a quando non si ribalta nel magico, nell’assurdo, nel lirico, nel realmente reale. Non si tratta di un dato evento, ma di un evento fondamentale, indipendentemente dal numero di eventi reali coinvolti. Se un giornalista indaga i fatti, il “new journalism” i problemi, il “gonzo writer” se stesso e lo scrittore di “creative non-fiction” l’esperienza personale, il giornalista magico indaga la metafora della vita. [La metafora della vita: il ballerino giornalista e la ballerina maga, la realtà dei fatti e la magia del movimento narrativo. Dico io.]

Chuck Rosenthal.


Così l’autore – in una prefazione critica che aiuta il lettore a capire cosa diavolo ha letto nelle precedenti 230 pagine, perché non è stata inserita all’inizio del libro come vorrebbe una prefazione ma al fondo – spiega, usando gli strumenti del mestiere, che genere di operazione narrativa ha compiuto una volta che ha smesso di intendere la realtà come un mistero e l’ha catalogata tra gli enigmi, “che a differenza del mistero si possono risolvere nella bellezza” e che, oltre a fare più magica la vita vissuta, rendono quest’ultima materia di scrittura. Se, come suggerito dalle parole di Rosenthal, il giornalismo magico coinvolge nella sua magia in primis il lettore e il suo atto di lettura, che cosa ha offerto allora l’autore al lettore come materia del suo libro? Cos’è questo enigma?

In altre parole: ok la teoria, ma in pratica ci dici cosa hai messo a ovest di questo eden che chiami Los Angeles?

Prima di tutto una famiglia di tre persone – padre (Shark) scrittore e insegnante all’università di La-La Holy, madre (Diosa) poetessa surrealista e figlia che si fa chiamare Gesù – che vivono a Topanga Canyon, “a una trentina di metri sopra un punto panoramico che si chiama Heaven”.

Come Chuck e la sua famiglia.

Poi, Robert Downey Jr. e Sting che vanno a un party e tutti li ignorano; i poeti che invadono Los Angeles con i loro reading autopromossi, autofinanziati, autovisitati; il razzismo di una ragazza vuota che vuole essere di colore e poi accusa il suo professore di averla insultata usando la parola con la N e il professore è costretto ad andare a insegnare in India; Gesù che moltiplica la Coca-Cola al liceo; Diosa che si rompe una costola in un incidente d’auto, all’ospedale si innamora del chirurgo e i medici insinuano che lei sia vittima di violenze domestiche ad opera del marito Shark che dice di essere andato a finire contro un palo solo perché è un picchiatore alcolizzato approfittatore; Shark che non è né un picchiatore né un alcolizzato né (forse) un approfittatore che dice la verità ma a un muro; Gesù che resuscita il suo moroso con un bacio sulla bocca al liceo; una sceneggiatura per un film su Shark e la sua famiglia letta da personaggi famosi come Viggo Mortensen, David Duchovny, Nicholas Cage, il Sundance, il Lion’s Gate. Ma che non si realizza mai. Che non diventa mai un film.


Come Chuck, la sua famiglia, la sua vita e la sua sceneggiatura. Veri ma come in un film mai realizzato. Veri ma dentro una scrittura.

In un contesto reale popolato da personaggi noti e altrettanto reali, in cui chi ha meno notorietà vive di quella avanzata da chi ne ha troppa, la vita dello scrittore e delle persone che lo circondano diventa la metafora magica di se stessa, senza tuttavia mai giungere a uno scioglimento di senso universale (come spesso fanno le metafore) ma, al contrario, rimanendo sino all’ultima pagina assolutamente ancorata alla monotonia esaltante del vero. Esaltante soltanto perché dopata dall’effetto Hollywood. Se questo discorso per molti di voi non ha senso vuol dire che è giusto: spesso, infatti, è stata questa la sensazione prevalente durante la lettura, un buffo e ilare spaesamento che non fissa la storia in negativo su un rullo di memoria, ma vive di istanti, situazioni, celebrità, assurdità accademiche e illusioni hollywoodiane. In loop. Anche quando lo scenario cambia e si deve andare in India per scappare dalle accuse di razzismo, anche quando lo scenario è cambiato e si è fatta una gita a Praga per accontentare il desiderio di Europa della moglie:

E a quel punto Gesù fece una cosa stranissima. Mise un piede fuori, sotto la pioggia. Si voltò verso di me. Tuoni e fulmini gonfiarono il cielo nello stesso istante. Il mondo diventò bianco. E alla destra e alla sinistra di Gesù vidi due figure, come lei, luminose. Alla sinistra Maylin Monroe e alla destra Karl Marx. Poi l’alone di luce sbiadì. La pioggia cessò e Gesù tornò nel ristorante. “Non dirlo a nessuno, papà,” disse Gesù.

Ed ecco la chiave di tutto: se episodi di questo genere sanno di realtà ma ci ricordano di essere in un libro e ci fanno un po’ sorridere un po’ prendere le distanze dai protagonisti, la lettura filata di questo libro – approccio che io consiglio vivamente, una scena via l’altra via l’altra a tutta velocità – credo possa davvero avere un effetto magico, simile a quello delle droghe leggere che tira, tira, tira, alla fine gira tutto, sorridi, gambe molli e stai da dio.

Che in effetti, se trovate un bravo partner e la musica giusta, questo è l’effetto che fa anche la danza. Un fatto, senz’altro, che però non conosci davvero finché non gli aggiungi la magia.

Ed ecco che allora tutto torna.

Buona lettura.

 

Chuck Rosenthal, A Ovest dell’Eden, Mattioli 1885 2013, pp. 246. Traduzione e postfazione di Nicola Manuppelli.

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