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Scassinare Los Angeles: Ryan Gattis ci racconta come

Che Los Angeles sia una città molto diversa dal mito che da sempre la avvolge dovrebbe ormai essere cosa nota. Almeno per i lettori di certa buona letteratura americana: da James Ellroy a Bret Easton Ellis, da Joan Didion a Eve Babitz, la Città degli Angeli ha finalmente smesso i panni di ultima terra promessa dell'Ovest per svelare appieno il suo lato oscuro. Un lato fatto di privazioni, illusioni, vuoti e violenze. Violenze tanto più crude quanto più è implacabile il sole che, ogni giorno e per buona parte dell'anno, ne illumina contorni e, altresì, ombre.


Se non è un caso che il noir americano sia nato e cresciuto da queste parti (e la cosa è talmente nota che Raymond Chandler è diventato il cicerone di un certo tipo di mappe della città), è lecito chiedersi: in una città grande come l'intero Piemonte quanti volti ha questa violenza? Chi ne sono i protagonisti? Dove e come prende forma?


Oggi ce lo racconta Ryan Gattis, scrittore, educatore e artista di cui Guanda ha pubblicato in Italia due romanzi: Giorni di fuoco (2017), la storia di quello che accadde alle gang di latinos di un quartiere di nome Lynwood in quei sei giorni di fiamme e guerriglia che coinvolsero Los Angeles nel 1992, in seguito a uno dei processi più celebri della storia americana chiusosi all'insegna del razzismo e dell'ingiustizia; e Uscita di sicurezza (2020, uscito proprio il 9 gennaio), un thriller ambientato in uno degli anni più oscuri della storia americana, il 2008, con protagonisti uno scassinatore professionista di casseforti e un ex trafficante.


In attesa di incontrarlo personalmente il 13 febbraio in occasione del Zacapa Noir Festival (di cui ho parlato qui) e di ascoltare i suoi racconti su Los Angeles e sull'ultimo romanzo, ho voluto rivolgere a Ryan le domande che mi sono fatta poco sopra e tante altre. Los Angeles è un luogo degli Stati Uniti che ci chiede urgenza: urgenza di percorrerla, viverla, ascoltarla nelle reali possibilità del suo esistere. Niente specchi in cui rimirarsi, niente culto dell'immagine, niente più riflettori: oggi a illuminare la città c'è il fuoco e fuori una notte senza stelle.

Sappiamo che sei arrivato a Los Angeles da molto lontano: sei cresciuto in Colorado. Come ti ha accolto la città? Com’era la tua vita quando ti sei trasferito?


Mi sono trasferito per la prima volta a Los Angeles nel 2009. Insegnavo scrittura part-time all’università e guadagnavo molto poco. L’unico posto che potevo permettermi era una piccola stanza singola in quello che era stato il Million Dollar hotel, riconvertito poi in appartamenti. Era a due isolati da Skid Row - la zona che ospita la più grande popolazione di senzatetto della città - e non avevo una macchina. Già solo questa è una colpa a Los Angeles o, almeno, questo è quello che ti dicono film e tv. Eppure, quello che scoprii fu che c’è un’intera popolazione che fa affidamento sui mezzi pubblici e questo mi ha dato modo di vedere la città con altri occhi, di viaggiarci dentro e di relazionarmi con gli altri.


In Giorni di fuoco ha descritto il lato oscuro del lato oscuro: i fatti che videro coinvolte alcune gang di latinos negli stessi giorni in cui la città andava a fuoco a causa delle rivolte del 1992. Perché hai scelto proprio quel quartiere - Lynwood - e quella gente - spacciatori e gangster ma anche pompieri, infermiere e ragazzini - mentre il resto della città stava chiedendo giustizia contro il razzismo?


Tutti quelli che abitavano a Los Angeles nel 1992 hanno una storia legata alle rivolte. Tutti quanti. Puoi chiedere a chiunque per strada e, se a quei tempi si trovavano in città, di sicuro ti racconteranno qualcosa. Ho scoperto questa verità per caso, prendendo autobus e treni, ma, una volta scoperta, ho iniziato a chiedere a tutti. Tatuatori, insegnanti, fornai, idraulici. Le loro storie mi facevano girare la testa. Erano veramente folli. Coprivano tutta la gamma dal restare bloccati in autostrada al perdersi prime comunioni al negoziare il prezzo di pianoforti al secondo giorno di rivolte e ottenere uno sconto assurdo perché il negoziante era convinto che il suo negozio sarebbe stato raso al suolo. In ogni caso, l’idea del romanzo non mi venne finché non trascorsi del tempo a Lynwood e non chiesi a un particolare ex membro di una gang che cosa fosse successo alla sua gente in quei sei giorni. Mi sorrise in modo nefasto e mi disse che furono sei giorni di vendetta. Più tardi discussi con un ex capo dei pompieri (Ron Roemer, lo stesso che cito nel libro) del periodo in cui lavorò a South Central e lui conosceva l’altro lato di quella vendetta: corpi nelle strade, interi isolati che andavano a fuoco mentre tu eri al corrente di poterne salvare solo uno. A quel punto sapevo che avrei dovuto scrivere quel libro. Un libro che mostrava più angoli, più facce.


Puoi dirmi qualcosa a proposito della tua relazione con le gang? Come mai le conosci così bene e come ti sei guadagnato la loro fiducia?


Conduco la mia ricerca su South Central Los Angeles e su Lynwood, in particolare, ormai da un decennio. Tutto comincia con l’incontrare le persone, semplicemente ascoltandole, profondamente e con rispetto. Non andavo lì con un programma preciso. Ero lì soltanto per vedere delle persone. Per ascoltare. Senza giudizio. Arrivavo come un semplice outsider del Colorado che voleva saperne di più sulla gente di questa nuova città. È molto semplice. Se piaci a queste persone, te ne fanno conoscere altre e così via. Ovviamente ha aiutato il fatto che allora stessi lavorando con gli artisti di UGLAR (street artists e writers) che avevano ancora una certa reputazione in città; penso che questa connessione mi abbia tenuto al sicuro, almeno all’inizio. Alla fine conobbi uno che era stato un pezzo grosso di Lynwood molti anni fa (ed è di quell’incontro che parlo nel mio TED talk, se vi interessa saperne di più). Dovetti in effetti chiedergli l’autorizzazione per scrivere di Lynwood e delle gang dell’epoca ed è giusto dire che, se non me l’avesse garantita, non avrei mai scritto né Giorni di FuocoUscita di sicurezza.


Il romanzo inizia con Ernesto Vera, un personaggio onesto e buono che nonostante questo diventa la prima vittima di una violenza cruentissima. Noi lettori patteggiamo per lui ma, capitolo dopo capitolo, è come se ci abituassimo a questa violenza e a un senso della giustizia che cambia repentinamente senza essere mai del tutto chiaro. L’uso che tu fai della prima persona per tutti e 17 i personaggi del libro è fondamentale in questo senso. Dov’è la morale - se ce n’è una - nella tua storia?


Non credo che imporre un giudizio morale ai personaggi o farlo attraverso il lettore sia mio dovere di scrittore. I lettori sono più intelligenti di così. Non desiderano il mio giudizio o che io dica loro cosa devono provare. Vogliono farsi un’idea personale o, almeno, questo è quello che provo io quando leggo. Le opere che incontrano di più il mio favore sono essenzialmente prive di giudizio. Quelle di John Fante, ad esempio, o di Eddie Bunker. E, siccome una gran parte del mio lavoro viene svolta ascoltando i ritmi delle persone vere, cerco di traslarli nella mia narrazione. È un dono potersi sedere a parlare con persone che hanno fatto esattamente le stesse cose che hanno fatto i personaggi nei miei libri - sì, incluso l’omicidio - e mi sembra che l'unicità dell’arte stia proprio nel mostrare queste tortuosità nel modo più limpido possibile (anche perché esistono ben poche cose più strazianti che sedere di fronte a un omicida alla San Quentin Prison e chiedergli come è stato fare quello che ha fatto). I miei libri ti portano dentro la testa di queste persone. In sicurezza. Ovviamente tali sentimenti di verità devono rivelarsi anche nel linguaggio: questo è il motivo per cui trascorro parecchio tempo a studiare la lingua e a scegliere le parole. Credo che in questo modo io cerchi di canalizzare le voci per il lettore. Non ti spingo a provare una sensazione o l’altra. Ti espongo semplicemente a una voce autentica, come se il mio lettore fosse seduto di fianco a me durante uno dei miei incontri, respirando la stessa atmosfera, ascoltando le voci di coloro che spesso non sono considerati importanti o rilevanti in una società civilizzata. Così, quando scrivo, cerco di portare te, lettore, faccia a faccia con personaggi reali che hanno verosimilmente fatto queste cose. Penso a me stesso come a una compagnia telefonica: sono qui solo per connetterti. Non per dirti come leggere o come ascoltare o cosa provare. Ti offro la questione nuda e cruda e da lì te la vedi tu.


Il tuo ultimo romanzo, Uscita di sicurezza, ha soltanto due protagonisti. Due uomini che inseguono e sono a loro volta inseguiti. Dove hai preso ispirazione per questa storia e cosa ti ha fatto propendere per un cambiamento così forte?



In realtà stavo lavorando su un altro libro quando ricevetti una chiamata, una domenica mattina, da una delle persone con cui trascorsi diverso tempo durante la ricerca per Giorni di fuoco. Era inusuale per questa persona chiamare così presto, mi spaventai pensando che fosse successo qualcosa di terribile. Quando risposi non mi salutò ma mi chiese soltanto: “Vuoi vedere come si scassina una cassaforte?” La mia risposta fu sì. Senza esitazioni. Andai all’indirizzo che mi diede e dentro il garage trovai una cassaforte, appoggiata sul pavimento, e due scassinatori che tiravano fuori i propri attrezzi. Mi spiegarono che erano due ufficiali della giustizia che lavoravano come freelance per la DEA (Drug Enforcement Administration), l’FBI e altri e che, nel tempo che ci avrebbero messo a scassinare la cassaforte, io potevo chiedere loro quello che volevo. Dopo quel giorno molto probabilmente non li avrei mai più rivisti quindi mi premeva molto usare quel tempo con intelligenza. Per prima cosa chiesi se erano mai stati lasciati da soli dalle forze dell’ordine mentre aprivano le casseforti. Risero. Certo che li avevano lasciati da soli. Sono parte di una catena di custodia e tutto quello che toccano può essere usato come prova in tribunale. Poi chiesi se i sospetti criminali tornano mai mentre gli scassinatori sono da soli al lavoro. “Sempre”, disse uno. “Avevo una pistola puntata addosso la scorsa settimana.” Colpito da questo dettaglio, chiesi quante volte avevano avuto delle armi puntate addosso nel corso della loro carriera. Risposero entrambi che non avevano tenuto il conto: abbassare lo sguardo verso pistole o coltelli era qualcosa che accadeva abitualmente. Mi venne la pelle d’oca sulla schiena e non potei fare a meno di chiedere: “Puoi spiegarmi come fai a convincere qualcuno a parole a non ucciderti?” Gli attrezzi si fermarono, sul garage calò il silenzio e i due scassinatori si guardarono: finalmente avevo chiesto qualcosa di sensato. La loro risposta cambiò il modo in cui guardo le persone e forse - cosa ancora più importante - mi portò a creare il personaggio di Ghost, un personaggio che vive secondo i principi che mi hanno illustrato loro. Misi da parte l’altro mio libro e iniziai Uscita di sicurezza quella stessa notte.


Il libro si apre con una playlist. La musica punk sembra essere la colonna sonora di tutto il romanzo ma è anche il linguaggio a dare ritmo alla narrazione. Qual è il rapporto tra la musica e la tua scrittura?


Assolutamente. Il punk e lo spirito di ribellione sono senza dubbio alcune delle ragioni per cui Ghost è in grado di fare quello che fa, penso. In quanto alla relazione tra la mia scrittura e la musica devo dire che è prima di tutto e soprattutto un’ispirazione. È il mio modo di entrare dentro un’opera e persino di un personaggio. La musica mi aiuta a dare forma a quei sentieri in cui deve muoversi il protagonista a livello emotivo e può creare anche atmosfera, persino ironia se usata in modo inaspettato. In più penso che la musica sia la forma d’arte più accessibile di tutte, in virtù della sua brevità e del fatto che si basa su cose come l’armonia e il tono. Penso che possa essere davvero utile per portare il lettore ancora più dentro l’opera, perché è facile di questi tempi andare a scovare una canzone e “ascoltare” un momento della storia, non soltanto leggerlo.


Uscita di sicurezza è ambientato a Los Angeles nel 2008. Sono passati 16 anni da Giorni di fuoco e sono comparsi nuovi protagonisti legati alla giustizia, come la DEA. Oltre al fatto che uno dei protagonisti si comporta come un moderno Robin Hood. Los Angeles sta cambiando? Se sì, in che direzione?


Los Angeles sta sempre cambiando. Forse, però, intendevi fare una domanda più specifica, che comprendesse l’aspetto del crimine. Uno dei motivi per cui ho scritto Uscita di sicurezza nel modo in cui l’ho scritto è stato il desiderio di aprire una finestra sull’evoluzione delle gang. Durante il tour di presentazione di Giorni di fuoco mi fecero così tante domande su come erano cambiate le gang dal 1992! Be’, la risposta è che sono diventate più professionali. Le street gang si sono sbiadite in termini di importanza. Le sparatorie dalle auto praticamente non esistono più. Ma questo vuol dire che la criminalità a Los Angeles è sparita? Assolutamente no. In un certo senso è più diffusa di sempre, ma gli obiettivi sono diversi adesso - non sono sempre visibili dai cittadini medi o persino menzionati dai giornali - così come lo sono le casseforti che Ghost deve scassinare in Uscita di sicurezza.


Non ci resta, allora, che metterci noi stessi sulle tracce di questi personaggi e di questa Los Angeles. Buona lettura e ci vediamo il 13 febbraio da Memo Restaurant a Milano con l'autore!

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