top of page

Se Paul Auster parla di sé

Nella vita di ognuno di noi, se si è abbastanza curiosi da non volersi fermare alla monodimensionalità, c’è un momento in cui si va alla ricerca di nuovi genitori: figure importanti che, pur non sostituendo per nulla la tua famiglia reale, vengono scelte come guide per quello che rappresentano, per quello che fanno e raccontano. Si tratta di affinità elettive, per lo più intuitive, unidirezionali e non alla pari: loro insegnano, tu impari. Loro hanno già fatto, tu devi ancora fare.

Ed è così che, quando ho deciso di diventare grande, sono finita ad avere tre nuovi padri: Bruce Springsteen, per l’etica del duro lavoro e della vita rude ma piena d’amore, per l’idea che finché la terra rimarrà dov’è e le tue palle pure allora non sarà ancora il tempo di arrendersi; Sam Shepard, per la sua ricerca della frontiera interiore e l’idea che la comunicazione con l’altro prende le forme di quello che vuoi tu e mai il contrario, anche quando si tratta della natura indomita o di una canna un po’ potente con cui, inevitabilmente, devi prima lottare; infine Paul Auster, per la sua immensa comprensione dell’umano e per la sua definizione urbana, dentro il mondo, dentro e insieme alla gente.

A loro tre io rivolgo alcune domande, ogni giorno. Non le elenco, ma sono le solite, sono le stesse che rivolgete anche voi ai vostri padri immaginari (Dio, il soffitto, le lacrime, i sospiri, la psicosi e poi quelli che vi siete scelti per sentirvi meno soli).

In queste domande, neanche a dirlo, si ripete come uno scampanellio di sottofondo la parola io, ovvero quel nodo esistenziale in cui convogliano il concetto di me stesso, quello di mondo e quello di difficile.


Lo scorso martedì è uscito il nuovo libro di Paul Auster, Notizie dall’interno, un racconto di forme diverse che parla proprio dell’io e che raccoglie lo sguardo di un grande scrittore – vorrei dire enorme scrittore – che ha deciso, per ora, di interrompere la sua normale rotta verso l’avanti, il futuro, e di volgersi indietro, di guardare a quel tempo della vita umana in cui la scoperta deve ancora diventare coscienza, la formazione consapevolezza, le curiosità personalità. Quel tempo della vita umana che talvolta viene inghiottito dai buchi della memoria e dagli angoli morti di uno sguardo, appunto, che tendiamo a tenere sempre  fisso su quello che deve ancora venire senza accorgerci che laggiù la maggior parte delle volte la visione è piuttosto informe.

Il libro è diviso in tre parti, molto diverse una dall’altra per tono, stile, forma e sostanza. La prima è composta da quei frammenti della fanciullezza che sono entrati, per bellezza o disillusione, per forza o per dolore, nell’album delle prime esperienze di Paul Auster bambino. Ognuno di questi frammenti potrebbe avere un titolo a sé, una parola che compendia l’esperienza vissuta: noia (soffre di crisi di apatia che lo portano lontano dalla realtà), solidarietà (all’età di otto anni gli capita di fare ancora pipì a letto ma un ragazzo più grande si occupa di mantenere intatta la sua dignità), crudeltà (si prepara così bene per le lezioni di inglese, si prepara così bene per far bella figura in classe dimostrando a tutti che la sua più grande passione è la lettura, si prepara così bene che il professore non gli crede e lo umilia), e così via. Non manca neanche il frammento sulla sua prima esperienza da narratore, un piacere che è bene che sia lui e solo lui a raccontare, perché cosa ne può sapere un altro del momento in cui tu hai iniziato davvero a sentirti te stesso?

Paul Auster narratore si rivolge al Paul Auster bambino dandogli – appunto- del tu, e non si capisce se sia sempre per affettuosa complicità o, piuttosto, per analitica distanza, quel distacco dell’adulto che è in grado di elaborare una riflessione dentro o alla fine di ognuna di queste prime esperienze, nonostante siano state vissute da un ragazzino lontano nei lontani anni Cinquanta. Non così, però, nella seconda parte del libro, dove Auster accompagna il lettore nel ricordo della visione di due film, guardati rispettivamente a 10 e 14 anni, e rivive il suo apprendistato ermeneutico come fosse ancora davanti allo stesso schermo. Immobile, filosoficamente catturato, emotivamente scioccato.

Nella terza parte, infine, a ricevere il tu di Paul Auster è la sua prima moglie Lydia, a cui lo scrittore indirizzò delle lettere mentre girava tra New York, Parigi e il Maine nel decennio dei suoi vent’anni, quando i due erano ancora fidanzati, delle lettere che oggi – ritrovate fortuitamente e inserite in questo libro – costituiscono il racconto di come il suo io, da disperato e disorientato ragazzo senza centro, sia diventato prima la scatenata versione di se stesso elettrificato dalla rivolta del Sessantotto e poi, una volta che la metamorfosi intellettuale si è completata, lo scrittore come noi oggi lo conosciamo.


Alcune persone, esperte o meno esperte, affezionate o meno affezionate, stanno criticando questo spostamento di Auster dalla narrazione pura e dura verso il ricordo, la scrittura del sé, l’autobiografia non richiesta. Altre persone, in altri emisferi spesso meno alti, criticano in generale il riferimento all’io quando c’è da mettersi a scrivere una storia, il fatto che tanto dei fatti tuoi al lettore che gliene frega. Spesso queste persone sono quelle che con la creazione artistica non hanno mai avuto a che fare e che neanche sanno, neanche possono immaginare cosa succede nel mondo interiore di un individuo quando si mette a creare. Nella scheda italiana di questo libro, sul sito dell’editore Einaudi, c’è scritto un concetto molto chiarificatore a riguardo: non puoi capire il senso del tuo lavoro, men che meno della tua vita, se prima non hai indagato la tua coscienza.

Paul Auster riesce a fare una cosa, da narratore, che io ho incontrato in pochissimi altri maestri della letteratura: riesce a entrare nel profondo dell’umano senza strappi, senza shock, senza imbastire grandi tavolate con tovaglie di merletto e oliere scintillanti pronte ad andare in mille pezzi al minimo tremore. Semplicemente lui fa così, lui è i suoi personaggi e, in misura ancora maggiore se possibile, è il movimento narrativo che porta impercettibilmente il personaggio dall’essere niente all’essere tutto. Riesce a fare una cosa difficilissima, che io un giorno vorrei imparare a fare, fosse anche una frase soltanto. L’ultima e per sempre. E per me.

E allora è per questo motivo che sono stata contenta di leggere come lui è arrivato a fare questo, di conoscere i segreti della sua anima bambina, di vedere in che modo e con quale scelta di parole ha deciso di esplorare i momenti della sua formazione, di sapere cosa lo ha colpito e cosa no, cosa lo ha scioccato e cosa invece lo ha fatto ridere. Allo stesso modo, sarà sempre per questo motivo che la scrittura del sé, nelle varie forme in cui si presenta, mi aiuterà ad allentare almeno un po’ quel nodo esistenziale dell’io che a volte è davvero troppo stretto per stare a leggere di altro che non sia vita vera.

 
bottom of page