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The End of the Tour: visione consigliata in compagnia degli amici di Wallace

Questo film a molti di voi non piacerà.

Lontano dalla caratterizzazione di David Foster Wallace quale genio che lotta – compiaciuto da un lato, sofferente dall’altro – con la complessità della propria scrittura, un genio in qualche modo nobilitato dall’incapacità di venire a patti con la realtà e quindi mitizzato per essersene volutamente allontanato, il film di James Ponsoldt è più simile a una commedia leggera che a qualsiasi altro tipo di saluto nostalgico, a qualsiasi altro tipo di omaggio commemorativo un qualunque fan avrebbe potuto rivolgere al soggetto delle sue fanatiche attenzioni.

Se siete di quei lettori, quindi, che hanno pensato di fare di Wallace un antidoto contro la massa – di cui la commedia leggera è spesso intrattenimento – allora, dicevo, questo film non vi piacerà. Se siete di quei fan che hanno pensato di fare di una cosa divertente che non farò mai più la maggior parte delle cose che riguardano la commedia umana – quella nuda, triviale e cruda, senza abbellimenti di scrittura, di cui anche Wallace faceva parte, spesso nel ruolo del fool – allora, dicevo, questo film non vi piacerà.


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The End of the Tour è un film che non si prende molto sul serio, che non analizza il rapporto di Wallace con la sua scrittura più di quanto non dia attenzione al rapporto con i suoi due cani, che ogni tanto mette il protagonista nelle condizioni di ricordarti quel tuo compagno delle medie sfigato e pieno di manie che non riusciva neanche ad ammiccare senza risultare ridicolo, che in realtà non racconta tanto di Wallace quanto dell’idea di come sarebbe stato figo avere un registratore in mano e registrare ogni cosa – idiota o profonda, pop o raffinatissima – che uscisse dalla sua bocca proprio nel momento in cui tu – giornalista appassionato di scrittura post-postmoderna – stai cercando uno spazio sul magazine per cui scrivi per risolvere le tue infantili ansie da prestazione da scrittore di insuccesso realizzando l’intervista del secolo.

David Lipsky – non ci vuole molto a capirlo – è il vero protagonista di The End of the Tour.

Ed è per tale motivo che a molti di voi questo film non piacerà.


Normal Theater

Il cinema dove è stato proiettato il film.


Non avrebbe conquistato neanche me, vi confesso, se non l’avessi visto in condizioni speciali e inattese: in anteprima a Bloomington-Normal – il paese del Central Illinois in cui lo scrittore visse e insegnò per dieci anni (1993-2002) e dove scrisse la maggior parte della sua opera – in occasione della seconda edizione della David Foster Wallace Conference, un raduno internazionale di studiosi, professori e artisti che per tre giorni hanno discusso i suoi libri, presentato brillanti ricerche, raccontato aneddoti sulla sua vita qui nel Midwest e, molto semplicemente, ricordato un amico e un maestro che tutti vorrebbero ancora avere con sé soprattutto perché da lui si imparava tantissimo e faceva ridere. Non era la prima volta per me a Bloomington-Normal: ero già venuta due anni fa esatti (lo ricorda chi segue il blog dai suoi primissimi post); ero tornata ancora poco prima della conferenza insieme ai Book Riders, proprio per far conoscere loro i luoghi sperduti nel niente della campagna americana tanto preziosi per la stabilità di David. E anche per me, per me che David – così, con questo nome e questa semplicità – qui l’ho conosciuto per la prima volta spogliato da qualsiasi distanza reverenziale, da qualsiasi mitizzazione da fan.

Solo David, uomo e scrittore.

David che qui nessuno ha mai visto in crisi o infelice o in pena per la propria scrittura.

David – un ragazzo alto e goffo, incredibilmente divertente e brillante, con un certo numero di dipendenze patologiche e tendenze solitarie ma un’attenzione, una partecipazione incrollabile verso tutto ciò che era umano e comunitario – che a un certo punto agli amici suoi che mi riportavano in albergo dopo la visione del film e volevano riprendere l’interpretazione di Jason Segel in quella tal scena in cui si diceva quella tal cosa, a loro che conoscevano Wallace così bene ed erano stati la sua famiglia quando viveva a Bloomington gli è scappato di dire proprio David. Non Jason Segel, ma David.

Aw, l’ho chiamato David, volevo dire Jason. È che sai, lui era proprio così. Segel è stato talmente bravo che per noi a un certo punto sullo schermo c’era David. Lui era lì, eccetto per il fatto che non era lui ma Jason.

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Tutte e tre le volte che sono stata a Bloomington ho avuto l’enorme fortuna di trascorrere del tempo con gli Harris, marito e moglie, ex professori alla Illinois State University, tra gli amici più stretti di Wallace, che negli ultimi anni si stanno occupando di tenere viva la sua memoria e le sue opere nella comunità universitaria e letteraria americana mettendo a disposizione il loro tempo e i loro “tesori” (cartoline, manoscritti, lettere, syllabi, commenti, foto, saggi, dediche, articoli, bozze) ai ricercatori che, per vari motivi (purché forti e validi), dimostrino interesse verso David e incrocino la loro strada.

Tra questi, personaggi molto diversi: Stephen J. Burn (curatore delle conversazioni di Wallace pubblicate in Italia nella raccolta Un antidoto contro la solitudine e adesso alle prese con le lettere), D.T. Max (autore dell’unica biografia dello scrittore attualmente in commercio, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi), me (che non sono certo degna di stare con questi nomoni, ma ho comunque interrogato Charlie Harris in vista dei seminari su Wallace di Torino e Bologna e di un articolo sulla sua attività di direttore del Dipartimento di Inglese della ISU che pubblicherò qui al più presto) e proprio James Ponsoldt (il regista che da casa Harris studiò attentamente il territorio di Bloomington-Normal al fine di riportarlo il più fedelmente possibile nel film, le cui riprese sono state effettuate – chissà perché – in Michigan).

È stato proprio grazie a Charlie Harris e a una sua telefonata che la sera del 28 maggio 2015 un centinaio di persone ha avuto modo di vedere The End of the Tour in anteprima mondiale nel cinema del paese dove Wallace viveva nel periodo descritto dal film e, come se già questo non fosse abbastanza, di parlare con il regista durante una Skype call di un’ora da Los Angeles dopo la proiezione.


Ponsoldt live at Normal Theater

Io non faccio mai domande durante i momenti pubblici, ormai l’ho capito, non mi sforzo neanche più di sorpassare questo blocco emotivo: mi sono arresa a pensare che qualcun altro le farà per me. Così, infatti, è stato anche questa volta: grazie a qualcuna delle teste lì sopra sappiamo che la famiglia di Wallace non ha appoggiato né riconosciuto il film (qui approfondimenti) ma che in realtà l’accuratezza della sceneggiatura e del ritratto di Wallace è estrema (oltre al fatto che è quasi tutto tratto dalle vere registrazioni); sappiamo che al momento James sta lavorando all’adattamento cinematografico di The Circle di Dave Eggers (!); sappiamo che qualcuno tra il pubblico vuole che James dica a Jason Segel che questa interpretazione gli varrà una nomination agli Oscar e allora James ride; sappiamo infine che

ho iniziato a leggere Wallace quando avevo 18 anni. Ero un ragazzino e a quell’età David era esattamente il tipo di ragazzo più grande di me con cui avrei voluto trovarmi intrappolato in macchina a parlare di musica, America, porno, letteratura.. Per questo ho scelto l’esperienza di Lipsky, perché, oltre ad essermi innamorato del suo libro quando uscì qualche anno fa, mi ero identificato con la sua esperienza.

Quanti di noi saranno disposti a cedere alla stessa vicinanza umana il prossimo 31 luglio?

Questo film a molti di voi non piacerà. Ma a tanti altri sono certa di sì.

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