L’abbiamo fatto mille volte – troppe volte – il gioco dei grandi scrittori americani viventi. Potremmo continuare, di certo continueremo, farlo ci piace da matti: consuma l’inchiostro del nostro logos più di quanto le loro opere consumino l’inchiostro della loro immaginazione.
In ogni caso. I grandi scrittori americani, anzi, i Grandi Scrittori Americani di oggi sono i soliti, sono loro, sono sempre e solo loro: Don DeLillo, Cormac McCarthy, Joan Didion, Joyce Carol Oates, James Ellroy, Toni Morrison, uno o due altri. I grandi scrittori americani minuscolo (Ellis, Franzen, Lethem, Eugenides e gli altri a cui vogliamo dare questo titolo, personalmente o collettivamente) sono a un passo, un passo che compiranno forse più avanti perché è banale ma avere ottant’anni non è come averne cinquanta, un passo che è minimo eppure continua a fare la differenza: non hanno ancora consumato il loro debito, non sono ancora loro a far lezione, per un po’ il banco del loro apprendere rimarrà uguale al nostro. Loro in prima fila, certo, e noi, inevitabilmente, dietro.
[Penso ai libri di DeLillo o di McCarthy che Wallace leggeva, studiava e riempiva di note. Non al college da studente, ma al college da insegnante. Pensateci anche voi, a quanta generosità intellettuale, a quanto senso del debito ci può essere dietro l’inchiostro nervoso e copioso di uno dei primi della classe, forse il primissimo.]
I maestri, quelli dall’altra parte del banco, sono gli scrittori a cui per nessuna ragione al mondo si può dire di no, gli scrittori le cui opere per nessuna ragione al mondo possono essere trascurate. E perché? Non (solo) per la faccenda del crescere, imparare, migliorare la propria visione della vita. Io non credo si tratti (ancora, solo) di logos quanto, piuttosto, di dignità. Di onestà.
Non provare a dire che sai cos’è stata l’uccisione di Kennedy per l’America se non hai letto Libra. Non provare a dire di aver provato il buio del lutto se non hai letto Il pensiero magico. Non provare a dire di sapere cos’è un tramonto se non hai letto Cavalli selvaggi. Non provare a dire di conoscere Los Angeles se non hai letto Dalia Nera. E non perché tu non ne abbia il diritto, ci mancherebbe, ma perché la sola presenza di queste storie nel nostro mondo, nel mondo di oggi, ci obbliga a un esercizio di umiltà e apertura alla scoperta che, io credo, vale la pena fare in ogni circostanza e in ogni tempo.
Io, ad esempio, non sapevo nulla di LA prima di incontrare James Ellroy e mai al mondo avrei pensato di imparare a conoscerla entrando dalla porta del Los Angeles Police Department. La porta degli sbirri. Per di più nel 1953. Nell’introduzione del libro alla vostra destra (pubblicato in Italia da contrasto con il titolo Un anno al vetriolo) e in diverse interviste raccolte nel volume minimum fax Ellroy Confidential, si legge che il Demon Dog, il cane indemoniato della letteratura americana ha un grande rispetto per i poliziotti di Los Angeles: si presero cura di lui quando sua madre fu uccisa, si presero cura della città quando negli anni Cinquanta e Sessanta divenne teatro di alcuni dei più incredibili crimini del mondo. Crimini che la consacrarono capitale del noir anche dopo Raymond Chandler, crimini che Ellroy distilla nei suoi libri come si distilla l’essenza pura di qualcosa.
Se di Los Angeles si potesse fare un profumo, infatti, quello sarebbe l’odore delle vecchie macchine fotografiche sulla scena del delitto, il flash acido sul sangue raffermo, sulla polvere nera, sulle suole rovesciate. Città adolescente che pensava – e pensa ancora adesso – di poter crescere a dismisura fagocitando i sogni di chi vi si trasferisce da tutto il mondo, la Città degli Angeli ne uccide più di quanti ne premi. Lo sanno le donne di Ellroy (sua madre e la Dalia), vittime sacrificali dei sogni infranti propri e altrui; lo sanno i poliziotti, vittime e carnefici dello stesso putridume che cercano di sconfiggere; lo sanno centinaia di persone, vittime a loro volta di corruzione, vergogna, droga, ricatto, abbaglio, presunzione, depravazione; lo dobbiamo sapere anche noi che viviamo lontani da Los Angeles e che ne apprendiamo solo le luminose, seppur caotiche, cinematografie.
L.A. è una condanna all’ergastolo, senza permessi o libertà vigilata, senza possibilità di fuga. NON C’È SCAMPO. Non puoi andartene, e nemmeno lo vorresti.
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Dopo che sua madre fu uccisa, per dieci anni, James Ellroy girò i quartieri bene di Los Angeles alla ricerca di mutandine da odorare, case da violare, droga e alcol da calare. Non commise mai delitti gravi ma conobbe la prigione, la versione più leggera della prigione ci tiene a sottolineare. Non arrivò mai all’autodistruzione ma ci andò vicino e quando, in quel decennio di follia, lesse gialli, polizieschi e articoli di cronaca nera si rese conto che l’ossessione per l’uccisione di sua madre aveva gettato in lui il seme dell’investigazione. Quel decennio finì, finì la follia e lui iniziò a scrivere.
Ho vissuto qui così a lungo che quando è arrivato il momento di sfruttare i ricordi di un passato lontano è stato facile. […] La Los Angeles di quegli anni è mia e di nessun altro. E se hai scritto di quel periodo prima di me, adesso quello che hai scritto mi appartiene.
Ellroy e Los Angeles sono una cosa sola e quella cosa, in termini narrativi, è la historical fiction. Una narrazione indispensabile, a mio parere, per riuscire a presentarsi su una soglia che, per forza di cose, appare invalicabile: il passato, il prima di una grande potenza urbana e mitica come LA. E valicarla. Una narrazione indispensabile perché vera ma finta, con personaggi veri che fanno cose che non hanno mai fatto e personaggi inventati che compiono azioni realmente accadute. Una narrazione indispensabile perché conosciuta da tutti ma vissuta da pochissimi, dove riusciamo a sentirci partecipi ma solo nel segno di una riscoperta costante. Una narrazione indispensabile, infine, perché osa e vince là dove falliscono (quasi) tutti gli altri e, così facendo, incarna nel suo paradosso la soluzione di ogni caso, la ragione di ogni omicidio, la causa di ogni male. L’assenza di ogni risposta che non sia la narrazione stessa. L’assenza di ogni finale che non sia la storia stessa. “Sembra il paradiso,” dice il Demon Dog, “eppure anche il paradiso ha i suoi guai”.
E allora, ancora: Ellroy e Los Angeles sono una cosa sola e quella cosa, in termini umani, è la vibrazione tragica delle infinite possibilità.
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