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We are alive – Il ritratto di Bruce se ancora non lo sai

Esiste un genere di scrittura che si chiama ritratto. Più breve e snello della biografia, meno impegnativo dell’articolo, più divertente del saggio, il ritratto compare spesso sulle pagine di cultura di riviste e giornali e descrive al lettore un personaggio molto famoso. Morto o vivo. Lo descrive il più delle volte dalla posizione privilegiata di chi si è facilmente guadagnato le chiavi di quella stanza delle sorprese che mandrie di fan conoscono solo dalla prospettiva stretta e scomoda del buco della serratura. Per di più immaginario, neanche reale. Il giornalista.

Il ritratto che Feltrinelli ha pubblicato quest’estate è We Are Alive. Il personaggio ritratto è Bruce Springsteen.

Ho comprato due copie di questo libro, una per me e una per la mia amica Riru, che Bruce l’ha conosciuto non tanto tempo fa.


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Lettura da albero: veloce, interessante, estiva. Per un paio d’ore puoi alienarti e stare nascosto in silenzio.


Firmato da David Remnick, direttore del New Yorker, il ritratto originale è comparso proprio sul suo giornale il 30 luglio 2012 ed è stato elaborato e scritto qualche mese prima, quando Bruce stava provando le prime canzoni di un tour che si sarebbe rivelato leggendario ma che a quel tempo doveva ancora iniziare. In Italia il ritratto è stato tradotto da Leonardo Colombati – uno che Bruce lo conosce bene – e pubblicato da Feltrinelli lo scorso maggio, proprio mentre Springsteen iniziava la seconda tornata del tour europeo rinnovando antiche promesse di gioia e felicità.

Io ho letto il libro a tour concluso (e vissuto), su un albero della casa al mare, mentre Twitter e Facebook mi regalavano immagini del Boss in perfetta forma su una spiaggia che qualcuno dichiarava fosse Porto Cervo, poi Maiorca, poi non so che altro. Ho letto di storie, emozioni, leggende che già conoscevo. Ho ripassato una mia vecchia passione perché avevo bisogno di allontanarmi da letture e parenti molto più impegnativi. Ho, insomma, cercato conforto – come spesso si fa – nell’amore consolidato senza dunque aspettarmi chissà quale smottamento tellurico da farfalle nello stomaco.

Le farfalle volavano tranquille fuori da me.

Ed è per questo motivo che questo libro non andrebbe indirizzato ai fan, ma soprattutto a chi Bruce non lo conosce ancora: a chi non sa che metà di ogni suo concerto è improvvisata (dove improvvisazione non vuol dire caso, ma professionalità praticata ai massimi livelli), a chi non sa che Bruce ha basato la sua ricerca musicale sull’elaborazione di un conflitto piuttosto significativo con la figura paterna, a chi non sa chi era il Big Man Clarence Clemons o la ragazza dai capelli rossi Patti Scialfa, a chi non sa che Bruce canta della classe operaia senza mai aver provato le dure fatiche di un lavoro che non richieda l’uso di chitarre. A chi ancora non sa – che cavolo! – che Born in the USA non è un inno di gloria, ma una feroce critica al violento imperialismo americano.

Remnick chiacchiera con Bruce seduto in una platea vuota mentre la E Street Band prova sul palco. Lo intervista sui temi politici del suo ultimo album Wrecking Ball e sulla preparazione dello show e poi, quando scrive il ritratto, frammenta le risposte con lunghe digressioni sul passato di Bruce, gli esordi, i momenti difficili, le contraddizioni della sua figura (in primis la frequentazione del lusso per uno che si professa cantore del popolo) e il rapporto con le persone importanti della sua vita. Ovviamente il filo conduttore di tutto il materiale narrativo è una carriera che sa di leggenda, un repertorio rock di altissima qualità che racconta la storia di un paese – l’America – e di una classe sociale – la gente comune, quella che si fa il mazzo, a volte sogna una Cadillac, spesso vuole scappare.

E a un certo punto, a dire il vero, una farfalla l’ho sentita.

Un giorno Bruce e Steve, amico di una vita e chitarra della E Street Band, litigano. E’ il 1987 e Bruce ha scritto una canzone (Ain’t Got You) che racconta di un uomo che nella vita ha tutte le fortune, possiede opere d’arte e denari, ma non riesce ad essere corrisposto dalla donna che ama. Quando Steve la sente si incazza come una bestia e gli chiede che diavolo sia quella cosa. Alla risposta: “E’ la verità, è come sono io!”, Steve non capisce più niente e gli sputa addosso una verità ben più importante per la quale sono certa che molti fan vorrebbero ringraziarlo: “La gente non vuole che parli della tua vita. A nessuno frega un cazzo della tua vita, è per la loro di vita che tu gli servi. E’ questo il tuo compito: regalare un po’ di logica, di senso, di empatia e di passione a questo mondo freddo, diviso e confuso. Spiegare le loro vite. Le loro, non la tua.” Si mandano a quel paese a vicenda, ma basterebbe intervistare un qualunque fan per capire che Steve aveva ragione.


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Nella libreria della casa al mare c’è libro delle cover della rivista Rolling Stone. Di Bruce ce ne sono tante, ma la mia preferita è questa. 5 febbraio 1981.


E per comprendere come fa un uomo solo a interpretare la vita di milioni di suoi simili, a emozionarli fino alle lacrime, a farli guarire da ferite profonde o almeno a far loro compagnia mentre cercano di rimarginarle, bisogna sfogliare il libro indietro, fino alle pagine dell’introduzione scritte da Colombati. In particolare la prima, in cui campeggia come prima parola dello scritto un nome: Friedrich Schiller. Bisogna essere davvero coraggiosi per cominciare l’introduzione di un libro su Bruce con Schiller, poeta, filosofo, intellettuale che devo andare su Google per ricordarmi bene in che periodo ha vissuto per evitare di fare gaffes. Seconda metà del Settecento, inizio Ottocento. La maggior parte di noi non lo conosce o non lo ricorda come dovrebbe, eppure è stato fondamentale per la definizione della nostra cultura moderna. Ha introdotto la differenza tra poeti ingenui e poeti sentimentali, una differenza che Colombati spiega e riprende per permettere al lettore di inquadrare bene la figura di Springsteen. Bruce è un poeta sentimentale e la relazione tra poeta sentimentale e arte, si dice nell’intro, “è sempre turbolenta e infelice, e l’effetto che ne risulta non è la gioia o la pace, ma la tensione, il conflitto con la natura e la società, la brama insaziabile”. E le forme di questa tensione modellano gli accordi di una chitarra rock che tanto più tende verso la riappacificazione ideale con il mondo là fuori quanto più sceglie di suonare e cantare le fughe, i fallimenti, la rabbia, la fatica, le distanze, la ribellione, la spinta sessuale, il contrasto generazionale, la rincorsa verso i valori del giusto e dell’umano che compongono l’essenza del nostro essere vivi. Del nostro essere complessi e infelici, poi ogni tanto sciolti e contenti.

E poi ribelli di nuovo.

Del nostro essere vivi, sì. Più di tutto, perché il tutto è compreso.

We are alive.


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